Mondo Vino

Fenomeni Italiani del vino: alla scoperta dei clienti amatoriali bravi come i professionisti

di:
Alessandra Meldolesi
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Copertina 970 Enoteca Pinchiorri cantina Credits Studio Quagli 1

I Personaggi

Giancarlo Marino, avvocato e importatore, Roma


Come ha iniziato a bere vino: Tra amici.

Come si è formato: A parte un corso AIS nel 1989/1990, fondamentalmente da solo, studiando, viaggiando, bevendo.


Il più grande vino del mondo: Non so se esiste il più grande vino del mondo. Nel giudizio di ognuno incide il proprio, personale senso estetico. Nel mio facile dire Romanée Conti, 1999 in bottiglia e 2009 dalla botte. Quindi non lo dico e dico invece Sodaccio Montevertine 1986, con cui ho fatto piangere di gioia una famosa produttrice borgognona: vive l’Italie!


La bottiglia della vita: La bottiglia dei sogni è quella che ancora devo bere, altrimenti che sogno sarebbe? Ce ne potrebbero essere mille, diciamone una: Beaune 1er cru Les Grèves Vigne de l’Enfant Jésus 1865 Maison Bouchard, anche perché temo non la berrò mai.

La bottiglia sognata: Se avessi il desiderio di un solo vino sai che noia... vorrei assaggiare mille cose.


La scoperta: Oggi non saprei dire. Fino a qualche anno fa sicuramente alcuni Rossese di Dolceacqua, ormai usciti dall’anonimato. Pochi vini e poche zone possono raccontare storie così belle.


Un abbinamento sorprendente: Grandi Borgogna rossi con piatti di pesce (Clos des Lambrays 2002 con il minestrone asciutto di tonno di Fulvio Pierangelini). Riesling tedeschi con crostacei (Erdener Prälat GK varie annate di E.Loosen in abbinamento a piatti di crostacei con riduzioni di frutta esotica, in un’indimenticabile cena organizzata da Giulio Perugini con Michele Biagiola e Maurizio Paparello). Questo per rimanere nel banale: il miglior abbinamento è in realtà quello con il/la compagno/a del cuore, in una sera magica, in un posto magico.

La cantina personale: Una volta avevo un file Excel sempre aggiornato della mia cantina. Ora non più e mi lascio sorprendere da una bottiglia che non ricordavo più di avere e mi dispiaccio di quella che pensavo, sbagliando, di avere ancora. Ho un po’ di tutto, più rossi che bianchi, Borgogna e Toscana principalmente, ma anche uno scatafascio di Riesling tedeschi che probabilmente non riuscirò a bere prima dei saluti finali.

Chi legge: Leggo di tutto, ho sempre letto qualsiasi cosa che avesse a che fare con il vino. Degli autori contemporanei ho un debole per Giampiero Pulcini, non tanto perché scrive benissimo, quanto perché sembra che parli di vino, ma il vino in realtà è un mezzo, non il fine, per parlare delle persone. Aggiungo Fabio Rizzari, per lo humor che gli è proprio, utile a non prendersi troppo sul serio.


Un sommelier da ristorante: Maurizio Paparello.


Remo Pasquini, imprenditore nell’arredamento, Bovolone


Come ha iniziato a bere vino: Ero astemio. Ho cominciato a frequentare ristoranti per lavoro, poi mi sono avvicinato al vino ed è diventato una malattia buona.

Come si è formato: Non ho diplomi. Ho fatto il mio percorso bevendo, ascoltando qualche amico e studiando sui libri. L’importante è degustare con consapevolezza.


Il più grande vino del mondo: Riesling della Mosella e chardonnay della Borgogna.


La bottiglia della vita: Château d’Yquem 1936, Château Haut-Brion 1964.

La bottiglia sognata: un vino buono della mia annata, il 1965.


La scoperta: Sabbia di Sopra il Bosco di Nanni Copè.


Un abbinamento sorprendente: i vini del Jura, che non amo, con i formaggi erborinati.

La cantina personale: prevalentemente Borgogna, divisa per comuni.

Chi legge: Andrea Grignaffini e Piero Gorgoni.


Un sommelier da ristorante: Alfredo Buonanno del Kresios.


Andrea Vincenzi, imprenditore, Bologna



Come ha iniziato a bere vino: Tramite un amico che faceva l’università a Venezia e aveva un papà gourmet. La prima bottiglia è stata un Tignanello 1981.

Come si è formato: Sono autodidatta, a parte alcuni corsi di degustazione e molti libri. Poi ho conosciuto e affiancato Alessandro Masnaghetti.


Il più grande vino del mondo: Bordeaux.


La bottiglia della vita: Château Latour 1947 e 1959.


La bottiglia sognata: Cheval Blanc 1947, ma la sorpresa è sempre dietro l’angolo.


La scoperta: Derthona di Massa.

Un abbinamento sorprendente: il sakè.

La cantina personale: per l’80% Bordeaux, Borgogna bianco e Porto.

Chi legge: Robert Parker.


Un sommelier da ristorante: Marco Reitano.


Giampiero Pulcini, Bancario, Sangemini


Come ha iniziato a bere vino: Distrattamente e un po’ controvoglia, poi dal 2003 ho cominciato a porvi mente ed è stato un crescendo. Posto chiave per me l’Oste della Mal’ora a Terni, allora gestito dall’istrionico Renzo Franceschini. Poi l’incontro con Sangiorgi e Porthos, che mi hanno indicato la traccia, un modo di stare nel vino che ho sviluppato per mio conto.

Come si è formato: Sono stati fondamentali Sandro Sangiorgi e il progetto didattico Porthos; l’amicizia e il confronto con Giancarlo Marino, Luca Santini, Armando Castagno; tutti i produttori e i bevitori che ho incontrato, incontro e incontrerò. La formazione non è un iter con un inizio e una fine, mi sto tutt’ora formando e spero di continuare per sempre. La conoscenza è un flusso imprevedibile in cui siamo immersi, siamo flusso noi stessi. Ci si forma vivendo, dubitando, guardandoci intorno con curiosità e apertura, ogni giorno. Non si può sapere tutto, una volta lo consideravo frustrante, oggi è un sollievo. Trovo salutare il disimparare, peraltro: serve a far spazio, alleggerire, aprire nuove porte.

Il più grande vino del mondo: Non esiste e forse non esisterà mai. È quello che vorrei produrre io in uno scantinato, con mezzi di fortuna. Dubito che sarebbe potabile ma realizzerebbe un sogno.


La bottiglia della vita: Tra i vini che vorrei trovarmi nuovamente di fronte - quelli che hanno materializzato una magia senza esser stati necessariamente i migliori – il “Clos La Néore” 1978 di Edmond Vatan, i Dolceacqua “Curli” 1979 e 1982 di Emilio Croesi, il “Bastardo” bianco “riservato agli amici” 1998 di Lino Maga, il Clos Vougeot 1998 di Philippe Engel. Mi hanno toccato in un modo così intimo da lasciarmi ammutolito. Il bello è che potrebbe non esser stato lo stesso per chi era con me in quel momento: l’incontro col vino è questione personalissima, in quanto tale insindacabile.


La bottiglia sognata: Ho un debole per i vini ossidati, sicché le bottiglie che mi sognerei di bere appartengono in gran parte a questa categoria. Un Madeira centenario, le vecchissime riserve di Contini, De Bartoli e Columbu, un Palo Cortado della mia età guardando un tramonto a Sanlùcar de Barrameda. Macchine del tempo capaci di far viaggiare da fermo, di scaraventarti in uno spazio “altro”.


La scoperta: Più che di un’azienda o di un territorio, mi piace perorare la causa di un vitigno non ancora conosciuto come meriterebbe. È il Trebbiano Spoletino, autoctono della zona tra Spoleto e Montefalco, che ultimamente si sta diffondendo con risultati incoraggianti in tutta l’Umbria. Più ne assaggio e più sospetto la sua estraneità alla famiglia dei Trebbiani. Coriaceo, vigoroso, tardivo nella maturazione, plasmabile in vinificazione, buono subito e buonissimo con l’affinamento, straordinario a tavola perché capace di accogliere senza rinunciare a una personalità spiccatissima. Fisionomia mediterranea su proporzioni nordiche, sintesi virtuosa di veracità e purezza, dalla squillante evocazione agreste. Le migliori interpretazioni stanno a proprio agio nei bicchieri bassi da osteria, ma non sfigurerebbero in uno Zalto su una tavola importante. L’abbinamento con le uova strapazzate al tartufo locale può dare dipendenza.


Un abbinamento sorprendente: Il rapporto tra vino e cibo mi appassiona molto. Le pagine de Il ghiottone errante di Monelli raggiungono vette di lirismo inarrivate. Da sempre Sandro Sangiorgi è acuto interprete della questione, tuttora molti suoi incontri hanno per oggetto tale “matrimonio d’amore” per citarne una felice espressione. Mi attraggono gli abbinamenti meno scontati, il rosso col pesce e il bianco con la carne; ma son fatto alla rovescia su tutto, preferisco il mare in inverno e la montagna in estate. Tra i principali motivi del mio amore per i rosati sta la loro duttilità a tavola: è la tipologia che più di tutte si presta ad ampie variazioni della temperatura di servizio, modulando la quale puoi seguire preparazioni diverse con lo stesso vino. Tra gli abbinamenti più sorprendenti che mi sia capitato di provare ne cito due. L’amico Mauro Erro di Napoli, impagabile enotecaro e divulgatore, mi regalò qualche anno fa una bottiglia di Donnas 2006 della Caves Cooperatives. Mi venne istintivo - forse per inconscia gratitudine - abbinare questo nebbiolo valdostano con una mozzarella di bufala di Battipaglia, fu perfetto. Poi un ciauscolo di Visso col Moscato d’Asti di Bera. Che cosa splendida il Moscato d’Asti, forse l’unica che i francesi davvero ci invidiano. Inteso come “diversamente kabinett” risulta felicissimo su cibi salati, basta una buona ricotta di capra. Trovo che l’unione col formaggio sublimi il concetto di abbinamento, del resto è l’alimento con maggiori affinità “concettuali” col vino. Troppo spesso vedo proposte basate su formaggi a pasta molle e vini dolci, disturbate da confetture che a mio avviso andrebbero bandite. Adoro appaiare vini secchi a formaggi a pasta dura e semidura, senza interferenze. Mi è capitato di condurre una verticale parallela di vino e Parmigiano Reggiano. Godimento puro.

La cantina personale: Piccola e governata dal disordine. Nel tempo sono cambiate le bottiglie, rispecchiando l’evoluzione del mio gusto e il mio percorso. Ma la presenza di produttori artigianali era, è e resterà totalizzante.

Chi legge: Gli autori che consulto maggiormente sono Sandro Sangiorgi, Armando Castagno, Francesco Falcone, Paolo De Cristofaro, Samuel Cogliati, Alessandro Masnaghetti, Giampaolo Gravina, Matteo Gallello, Nicola Perullo. Professionisti di livello assoluto su scala internazionale, di cui dovremmo andar fieri. M’incanta l’uso geniale del linguaggio da parte di Fabio Rizzari, raffinatissimo nel veicolare in modo godibile concetti complessi. Mi diverte molto Sara Boriosi, una fuoriclasse nel suo genere. Standing ovation per Paolo Monelli e Mario Soldati. Su Veronelli faccio ammenda, ne riconosco l’importanza capitale ma non ci sono mai entrato in sintonia.


Un sommelier da ristorante: Ci sono chef, specie di altissimo livello, che vedono nel vino un elemento disturbante rispetto alle loro creazioni; un po’ come un pittore che non tolleri alcuna cornice per un quadro. Sul piano teorico può starci di calibrare meccanismi tattili/gustativi talmente perfetti da rendere un piatto come opera compiuta in sé, sul piano pratico si svela però un’opera chiusa. Non limitata ma limitante. Lo stesso vale per quei produttori di vini talmente ipertrofici da non preoccuparsi di aprire rapporti col cibo. Vini autoreferenziali, prevaricanti, che parlano ad alta voce ma non sanno ascoltare. Anche prescindendo da questioni di rappresentatività territoriale, il problema è che se un vino non dialoga con ciò che lo circonda non serve a niente. Giustamente oggi l’attenzione nella ristorazione si sta concentrando sulla sala, elemento fondamentale nell’indirizzare la gradevolezza di una visita. In Italia c’è molto da recuperare, ma pare che qualcosa si stia muovendo. Personalmente trovo spesso frustrante la consultazione della carta dei vini; non è questione di ricarichi ma di proposta. Se ostenti dieci annate di Masseto o Mouton Rothschild mi stai dicendo che hai decine di migliaia di euro immobilizzate in cantina. Bello, ma se non elabori una proposta parallela interessante a prezzi umani non mi stai dando un servizio, e io da certi posti una maggior cura di questo aspetto lo vorrei. Parlo di ricerca, di abbinabilità con la tua linea di cucina. Prima che impressionante, una carta dei vini dev’essere praticabile. Quando mi siedo al ristorante il vino deve rappresentare un’occasione, non un problema. Possibile che 8 volte su 10 mi ritrovi a scegliere “il meno peggio”, per esclusione? Siamo in Italia, potremmo pescare in un mare di vitigni e territori... meno Cabernet Sauvignon, più Ciliegiolo! C’è poi il variegato mondo dei rifermentati in bottiglia con metodo ancestrale, oggi orrendamente chiamati “pet-nat”. Ne sono spuntati fuori una marea, in parte è una moda ma nelle zone “classiche” possono rivelarsi splendidi, incredibilmente gastronomici e alla portata di tutte le tasche. Chi lo dice che con l’”ombrina che sbaglia uscita, si ritrova nel fiume, risale il bosco e incontra il cinghiale su letto di spugnole e aria di pino mugo” non ci stia meglio un Sorbara invece del solito Chardonnay? Dovendo fare il nome di un sommelier, dico Diego Donati di Armando al Pantheon. Un ragazzo di talento e sensibilità fuori dal comune, con una capacità di sentire il vino – il suo umore, il suo senso – che è un arricchimento per chiunque gli sia vicino.

Wine Reporter

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