Food&wine

Tutto quello che avreste sempre voluto sapere su DOOF, il controcongresso di Valerio Visintin

di:
Alessandra Meldolesi
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In un’intervista esclusiva Valerio Visintin, fustigatore mascherato della gastronomia italiana, fa il punto su Doof, evento da lui ideato, e sulle magagne del settore. 

L'Intervista

Tutto quello che avreste sempre voluto sapere su DOOF, il controcongresso di Valerio Visintin


Il primo è stato probabilmente François Simon, eminenza della critica francese che in televisione si presenta mascherato, come in ogni occasione pubblica. “Essere critico gastronomico in incognito significa vivere in una fiction, adottare una vita in prestito. Che conforto vivere mascherato”, ha dichiarato. Ma l’alta cucina ha una vecchia consuetudine con travestimenti e fregolismi a fin di bene, dal Louis de Funès di Aile ou cuisse, sotto la sua adorabile velina da nonna, a Ruth Reichl in Aglio e zaffiri. Vita segreta di una gastronoma mascherata. Da noi ci ha provato Valerio Visintin, passamontagna militante del “Corriere della sera”, attualmente alle prese con l’organizzazione di un evento che potrebbe cambiare il settore: Doof, il ribaltamento del food, che si terrà a Milano il 23 e 24 giugno presso Mare Culturale Urbano.

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DOOF va interpretato come un controcongresso di cucina?


Contro? Di fatto lo è. Ma non vorrei che passasse l’idea di una contrapposizione indiscriminata e pregiudiziale. La nostra è, più che altro, una supplenza. Ci soffermeremo su questioni nodali che, tuttavia, vengono sistematicamente rimosse dalla coscienza di un intero settore, per superficialità o per convenienza. Insomma: non siamo noi a viaggiare “contro”. Sono gli altri che hanno imboccato la strada dal lato sbagliato.

A chi si rivolge?


A tutti. Cucina, cibo e ristorazione stanno in vetrina ogni santo giorno. Sono i tasti sui quali batte l’esercito dei media: dalla televisione alla carta stampata, passando per il web. Ci rivolgiamo alla stessa variegata e universale platea.

Come verrà finanziato?


Per ora ci affidiamo al nostro volontariato, alla disponibilità dei relatori e alla generosità della struttura che ci ospita. Ma siamo alla ricerca di sponsor che condividano l’impostazione etica. Non è una ricerca semplice, perché il coraggio costa più dell’ipocrisia.

Puoi darci qualche anticipazione sul programma?


Cuore del programma sono cinque dibattiti, che si identificano con altrettanti titoli. “Food sociale”: le mense dei poveri, i progetti nati all’interno delle carceri. “Social food”: la comunicazione ambigua e inquinata che passa attraverso i canali delle foodblogger e delle influencer. “Critica gastronomica”: il punto su un settore in lite insanabile con l’etica e con la grammatica. “Dietro le quinte della ristorazione”: pagamenti in nero, turni infiniti, contratti violati. “Mafie”: la presenza sempre più pervasiva della criminalità organizzata nell’ambito della ristorazione.

Report ha fatto luce sui problemi più gravi del settore, come lo strapotere degli sponsor, i conflitti di interesse fra chi organizza eventi e giudica ristoranti o chi lavora al tempo stesso come giornalista e pr. Sembra tuttavia che nulla sia cambiato. Qual è il tuo giudizio sulla trasmissione?


Per cambiare un sistema consolidato e guarirne le patologie croniche, non può bastare un servizio di denuncia, nemmeno se il pulpito è autorevole e popolare come quello di Report. Ma Bernardo Iovene ha svolto con coscienza il ruolo che gli competeva. Se, come lui, ognuno di noi facesse la propria parte, qualcosa si smuoverebbe.

I risvolti “sindacali” di queste problematiche sono qualcosa di cui si parla troppo poco. In un ambiente dove ai vertici si guadagna ancora molto bene, come si può scaricare ogni responsabilità sugli “operai” del giornalismo, spesso chiamati a lavorare gratis, senza metterli in condizione di operare correttamente?


Quello che descrivi è un dramma trasversale, che investe tutte le pagine del giornalismo. Ma per il nostro settore va fatto un discorso a parte. Perché la critica gastronomica in Italia non è mai esistita, al di là di qualche interprete isolato. È sempre stata un hobby. Non ha mai avuto riconoscimenti ufficiali, né regole condivise. È un’etichetta autentica sul corpo di un mestiere falso, come per la merce contraffatta. Quel che scambiamo per critici gastronomici sono, nella stragrande maggioranza dei casi, altri ruoli. Abbiamo, per esempio, gli agiografi degli chef, i presenzialisti delle inaugurazioni, i laudatori seriali, i markettari più o meno occulti.

Improbabile un riscatto che nasca dal sindacato o dagli editori. Quell’onere spetta a noi. Ora che abbiamo toccato il fondo, c’è spazio per risalire, mettendo in piedi iniziative come la nostra o meglio della nostra, che tengano aperto lo spiraglio di una svolta culturale.

Un’altra cosa di cui non si parla mai sono le competenze, ci sono vegetariani che giudicano ristoranti e celiaci che scrivono di pizzerie.


Anche l’incompetenza è un virus antico e diffuso. Leo Longanesi diceva che i giornalisti: “spiegano benissimo quello che non sanno”. Un vizio che si acutizza nel segmento che, di volta in volta, raccoglie i favori delle mode, richiamando in massa esperti dell’ultimissima ora.

Ma direi che è il male minore. La competenza resta un fatto privato, se non si traduce sulla carta. E i resoconti gastronomici, salvo eccezioni, sono inzuppati di bugie.  Dovremmo scrivere per informare i lettori. E, invece, si concepiscono articoli per farsi leggere dai colleghi, per beneficare una azienda o uno chef, per far felice un amico, per ricambiare un obolo o una cena gratis, per catturare dei like, per accreditare il nostro allineamento al pensiero maggioritario. Sciorinare cultura gastronomica nei banchetti coi colleghi non serve a nessuno.

Non è una contraddizione che nella tua squadra ci siano giornalisti che fanno ufficio stampa?


No, perché? È un problema che sussiste ove si materializzi un conflitto di interessi. Quando, per esempio, un ufficio stampa che si occupa di ristoranti scrive recensioni di ristoranti. Non è il caso di Aldo Palaoro, col quale condivido questo progetto (assieme a Samanta Cornaviera). In linea di principio, comunque, non è un male che gli uffici stampa siano affidati a giornalisti. È previsto nei sacri codici dell’Ordine. E sarebbe auspicabile, data l’alta marea di dilettanti che confluisce in questa categoria.

In fondo parliamo solo di un bicchiere di vino e qualche caloria sopra una porcellana, in un paese allo sbando che forse presenta in ogni ambito gli stessi problemi di familismo e corruzione, come rispondi a chi ti accusa di drammatizzare il quadro per farne un business?


Hanno ragione. Lo confesso: io sono ricchissimo e il quadro generale del settore è idilliaco.

DoofCenacolo

Consiglieresti ancora a un giovane di intraprendere questa professione?


Cambieranno le formule espressive e i relativi supporti, ma questo mestiere in qualche modo proseguirà il suo cammino. Proprio per questa convinzione, abbiamo affidato i testi del nostro sito DOOF a un gruppetto di studenti universitari. Cercheremo di insegnare loro quel poco che sappiamo, senza comprimerne i talenti e le vocazioni. Non li costringerò a infilare passamontagna e cappello. Ma voglio che imparino a maneggiare la lingua italiana e la grammatica deontologica.

 

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