Arnolfo
Il ristorante
Sono mesi, ormai, che tutti ne parlano: Gaetano Trovato ha aperto un ristorante pazzesco nella sua Colle Val d’Elsa! Punti esclamativi che sembrano perfino riduttivi, quando risalendo il paese, appena fuori dall’antico abitato, ci si trova davanti a qualcosa di inaudito. Dietro la scala è acquattata orizzontale la vetrata che rispecchia torri e campanili medievali, protiro di una moderna cattedrale, perfettamente inserita nel paesaggio. E dietro il portone, maestoso come i battenti di un battistero, la sala e la cucina aperta scorrono con la solennità di due navate.
“Amo da sempre l’architettura e l’arte contemporanea. Volevo qualcosa di importante, che fosse confortevole e stimolante per le nuove generazioni. L’esempio di un luogo creato dal nulla, non riadattato come sempre accade in Italia, che potesse essere replicato in modo personale”, esordisce Trovato, che con la pazienza di una lumaca ha creato il suo guscio. Qui arrivano lontani, gli echi della chiusura del Noma; l’alta cucina sembra scoppiare di salute nel via vai di collaboratori giovanissimi.
Colpisce soprattutto la determinazione con cui Trovato ha portato avanti per decenni il suo disegno, in silenzio, raccogliendo risorse e idee in giro per il mondo. “Fin dagli anni ’90 cercavo una residenza d’epoca o un cascinale dove acquisire più spazio, senza fortuna. Volevo un luogo confortevole dove poter offrire un’esperienza a tutto tondo, che valesse oltre il viaggio, la vacanza. E ho sempre accantonato i miei guadagni per l’investimento, come un business plan. Finalmente nel 2010 abbiamo acquisito questo terreno, che era edificabile a villette. Io ho sempre viaggiato molto per lavoro, dall’America all’Asia, durante la chiusura invernale e ho così avuto modo di vedere con i ragazzi cosa accadeva dall’altra parte del mondo. In me si è aggregato spontaneamente un nodo di idee, pensieri, organizzazioni che ha preso forma pian piano”.
“Amo la trasparenza in assoluto”, prosegue Trovato accarezzando con lo sguardo la cucina a vista e le vetrate dell’open space. Tutt’intorno materiali che sono in gran parte locali, come il marmo giallo di Siena alle pareti, il travertino di Rapolano sul pavimento, i cristalli ColleVilca di quella che un tempo era la piccola Boemia d’Italia. Tutto è pulito, moderno, lineare ma senza ossificazioni, fra i fiori olandesi da sempre cari alla casa, assemblati in composizioni dallo chef, cultore del bello totale. Tanto design (i tavoli Desalto, le poltroncine Frau), ma altrettanta domotica e 4.0, con il controllo capillare di qualsiasi temperatura attraverso iPhone.
Soprattutto ergonomia, visto che ogni dettaglio è studiato per alleviare la fatica dei collaboratori e perfino gli spazi di servizio, come il laboratorio per celiaci e allergici, sono rifiniti e luminosi. In cucina sono tre blocchi De Manincor a pettine da quattro metri mezzo, disegnati per la massima facilità di pulizia, con una passata veloce di spugna, senza interferenze fra partite. Mentre sul soffitto aspirante l’impianto a ultravioletti purifica l’aria e non si ode ronzio di motore, spostato all’esterno. Lo studio Milani ha trasformato in realtà una visione, che poteva appartenere solo a un cuoco per definizione e aderenza, simile all’unghia sull’anulare del mestiere. Più che un ristorante, sembra un modello virtuoso: il prototipo di un’armonia totale fin negli orari di lavoro, abbreviati dall’efficienza a nove ore con tre giorni liberi, in un’ottica di sostenibilità anche umana.
Ed è già la consacrazione, a prescindere dai frutti che darà, per un cuoco che mantiene da sempre rari standard di eccellenza e continua a formare intere generazioni di cuochi, i cosiddetti “arnolfini”, come il maestro di una bottega rinascimentale. Da Matteo Lorenzini a Marco Stabile, da Filippo Saporito a Eugenio Boer, fino ad Alessandro Cozzolino e Filippo Scapecchi. Ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Il prossimo sarà il secondo Andrea Godi, che calca le scene con l’assistant restaurant manager Calogero Milazzo e la chef de rang Giovanna Mattu, più Giovanni Trovato, signore della sala, e la sorridente figlia di Gaetano, Alice, operation manager.
La cucina, nella sua allure neoclassica, è estremamente personale: con l’inseparabile fratello Giovanni, Gaetano ha trascorso l’infanzia a Scicli, prima di trasferirsi con la famiglia in Toscana. Ed è la luce del Mediterraneo che continua a definire i suoi piatti, dove converge l’insegnamento di Roger Vergé, trait d’union fra la nouvelle cuisine e la cuisine du soleil, affiancato in un paio di stagioni al Moulin de Mougins. “Mi ha aperto gli orizzonti della creatività e del bello. Di lui ricordo le brasiere che bollivano per estrazioni di mare, di terra o vegetali, quando ancora in Italia non si usava. Una concentrazione unica, che continuo a perseguire a modo mio, nel tentativo di esaltare il gusto naturale dell’ingrediente”. Poi i passaggi da Lenôtre per la pasticceria e Paracucchi, che lo portava al mercato, quando già aveva preso in mano la trattoria della madre, trasformandola man mano.

Esperienze che tuttavia non prevalgono mai su una sensibilità originale, fatta di estetismo leggiadro e grafismi estemporanei, cotture millimetriche e dettagli sottili. Se i piatti sono così buoni, si deve in gran parte alle preparazioni espresse, oltre che alle virtù degli ingredienti. “È l’attimo che ti fa accarezzare uno scampo, il gesto di nappare con un cucchiaio di burro spumoso la carcassa di un piccione. Voglio premiare i miei clienti con una cucina cucinata, per questo siamo tanti. Vedo i ragazzi che si emozionano a dare il massimo ogni volta che ripartiamo da zero, senza mai scendere a compromessi”.
Sono materie in larga parte locali o comunque toscane, lavorate intere: i volatili di Laura Peri, la chianina di Simone Fracassi, l’agnello, l’oca e le uova del Casentino, i pesci della costa, i vegetali di un orto vicino (in attesa di acquisirne uno) e l’olio già proprio. Con i tagli meno nobili che confluiranno nel vecchio Arnolfo, trasformato in osteria per spingere la sostenibilità e dialogare orizzontalmente con la comunità. “Anche stamane sono andato al mercato alle sette, a turno porto uno dei ragazzi e gli insegno a scegliere, poi gli offro la colazione. È confrontandoci sui prodotti di stagione che nascono i piatti, a volte anche da spunti loro”.

I piatti
A questo servono spesso gli appetizer, che a differenza di cialde e snack correnti, rappresentano veri e variabilissimi micro-piatti, la cellula di corse che presto potrebbero entrare in carta, dal capriolo alla mazzancolla, alla ricciola. “Ogni partita ha il compito di crearne uno, dopo i meeting settimanali sulla spesa di stagione”: la creatività come pedagogia. Seguono due menu: Impressionismo vegetale (erede di uno dei primi degustazione vegetariani in Italia, datato 1999) a 150 euro ed Evoluzioni contemporanee a 180.

“Per me è fondamentale che ci sia esplosione di gusto, colore e movimento nel vegetale; con la giusta profondità di lavoro si può fare molto”. È il caso della zucca sottoposta a molteplici lavorazioni, al forno, glassata con la riduzione delle bucce, in forma di fondo, crema e polvere con la nocciola, anch’essa variata senza mai snaturarsi.

Oppure della miscellanea di cavoli in una girandola di cotture e consistenze. Per ogni ingrediente sono in media quattro o cinque lavorazioni codificate in un book, su cui lavorano i ragazzi; ma l’impiattato può variare settimanalmente. Se gli accostamenti stagionali sono dettati dal ragionamento sul gusto, le vibrazioni sensoriali ed estetiche rasentano l’estemporaneità gagnairiana, rendendo ogni degustazione irripetibile: è la grande forza di rigenerazione del classico. Ma è eccellente anche il primo piatto del menu, una pappardella farcita alle cime di rapa e ricotta, strutturata dalle olive nere e dal porro, per un tripudio di gusto mediterraneo.

Freschezza, equilibrio, una matericità che vola: sono gli scampi dell’Argentario con caviale di aringa, cialda di tapioca e cavolfiore alla vaniglia; oppure le “costolette” di rombo al vapore e panate al panko, con frutto della passione, rape, topinambur ed estratto di radici, per il twist amarotico e terragno, misuratamente contemporaneo. Fra i primi, le piramidi di cinta senese e friarielli con lo zafferano di San Gimignano, eleganti senza perdere morso e mordente.


Memorabile per leggerezza danzante il branzino con scorzonera, nero di seppia e zenzero. Ma l’apoteosi è ovviamente il piccione, cotto al momento in carcassa per più gusto, forma e tensione, con quaranta nappate contate di burro spumeggiante, passato due minuti al forno e lasciato riposare dieci minuti a 55 °C, poi scaloppato, servito con melagrana e porro in forme capricciose come le nuvole, che non si cristallizzeranno mai.

Merita una menzione speciale la pasticceria di Michele Fanucchi, giovane pastry chef allevato da Trovato che sa modellare in sembianze contemporanee un gusto toscano squisitamente etnico, mai così elegante, attraverso il gioco delle speziature. Rifacendosi ai doppi servizi salati, serve in predessert gli stessi elementi del dolce, anche per minimizzare gli scarti, come in un memorabile gioco di gianduia, arance rosse e cannella.

Indirizzo
Ristorante Arnolfo
Viale della Rimembranza, 24, Colle di Val d’Elsa, 53034
Tel: 0577 92549