La storia
Dici Monaco e pensi a una sfilza di yacht scintillanti dal design modernista, popolati di celebrities e di miliardari. Eppure, ogni mattina a mezzanotte nello stesso mare compie il suo slalom un’imbarcazione ben più raccolta e spartana, che si avventura al largo. Si chiama Diego ed è il peschereccio di Eric Rinaldi, l’ultimo dei pescatori in attività nel principato, che ogni mattina continua a portare avanti l’attività dei suoi avi.

Eppure, anche qui, come su qualsiasi altra costa del Mediterraneo, fin dalla fine del XVIII secolo, quando i pericoli iniziarono a scemare, la pesca ha rappresentato un’attività fiorente, che riforniva i banchi lungo il molo e il mercato di Place d’Armes, tuttora esistente. Nella prima metà del Novecento, erano ancora numerose le barche di legno multicolori che solcavano il mare con le reti, analogamente agli altri tratti della riviera. Monaco sembrava un centro come un altro, mentre la forza di attrazione del suo Casino, completato dalla famiglia Grimaldi nel 1863 su una collina di limoni, continuava a crescere sottotraccia, trasformando il principato in una destinazione privilegiata per nobili e super ricchi.
Fino all’accelerazione degli anni ’60, con l’affermarsi di un nuovo modello economico, l’arrivo nel porto di imbarcazioni di lusso sempre più numerose e ingombranti, l’estinzione del mestiere del carpentiere navale e la sostituzione del legno con materiali come la vetroresina. Ed eccoci arrivati ai giorni nostri, quando Rinaldi è conosciuto appunto come l’ultimo dei pescatori monegaschi.

Oggi il principato è una delle aree a più elevata densità di ricchezza nel mondo: un terzo dei suoi quasi 40mila residenti è composto di milionari, ma fra loro resistono 9611 cittadini comuni di lunga data, come i Rinaldi. Sono tutelati, quasi fossero animali in via di estinzione, da diversi istituti, che si occupano di salvare il dialetto o di garantire alloggi a prezzi sussidiati. E ci sono quelli che decidono di continuare a vivere come sempre: erano gli inizi del Novecento quando il primo Rinaldi, Adolphe, gettò le reti in mare, seguito da nonno Ange, papà André (soprannominato nel porto Dédé, come la seconda barca di famiglia) ed Eric, appunto.
La vocazione nel suo caso è stata precoce, per quanto la mamma tentasse di tenerlo lontano dal porto favorendo passioni meno faticose: a cinque anni già buttava l’esca della sua canna in acqua, sotto l’occhio vigile di papà Dédé sulla barca; da adolescente, poi, alternava la scuola con le giornate in mare, nell’attesa impaziente di cominciare a lavorare ufficialmente a sedici anni. Oggi continua a passare intere giornate al largo, dormendo a casa al ritorno: fa bottino di tonni e pesci spada, orate e scorfani, ma può capitare anche che rientri a mani vuote. Finiscono sui banchi della pescheria U Luvassu di cui è socio, contesi da chef di ristoranti lussuosi, cuochi di barche e monegaschi; ma spesso se li accaparra il suo socio Ben Slama, che li cucina e li serve ai tavolini fronte mare.

“La prossima generazione ha voglia di fare altro”, lamenta. E se il figlio dodicenne Diego, cui ha intitolato la barca, è ancora troppo giovane per decidere cosa farà da grande, Eric è certo che continuerà a esserci posto per un pescatore a Monaco. “Se un altro giovane vorrà, perché non aiutarlo?”
Fonte: BBC