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Memorie da Identità Golose 2019: dove sta andando la cucina gastronomica mondiale

di:
Sara Favilla
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Identita Golose 2019

Il tema del 2018 ha trovato quest’anno nuova linfa con il capitolo del “Costruire nuove memorie”, in un modo che ricorda molto un celebre aforisma del compositore Gustav Mahler: “La tradizione è custodire il fuoco, non adorarne le ceneri”.

L'Evento

Da 15 anni a questa parte è uno dei momenti più attesi dell’anno da cuochi, giornalisti e appassionati di cibo. Ci fa piacere che il convegno di Identità Golose sia ormai un’occasione di riflessione sulla situazione della ristorazione italiana e internazionale, che ogni anno si arricchisce di ingredienti sempre nuovi. Si parla di tecniche di cucina, di innovazione e progresso, di sperimentazione, ma nel corso di queste due ultime edizioni si nota volentieri che il focus si sta sempre più orizzontando sulla ricerca della materia prima. Materia prima che si declina nei prodotti, dalla pasta, alla carne, i formaggi, il pane – che ormai si è fatto logo ed emblema della manifestazione – a sottolineare sempre più il desiderio dei cuochi di farsi portavoce di produttori particolari in strenua lotta contro la grande distribuzione nel tentativo di valorizzare territori e piccole economie che inseguono la qualità anziché la quantità. Ma materia prima è anche quel fattore umano che dal 2018 si è fatto bandiera di questa tre giorni e che si configura sempre più come inesauribile fonte di indagine e approfondimento.


Il tema del 2018 ha trovato quest’anno nuova linfa con il capitolo del “Costruire nuove memorie”, in un modo che ricorda molto un celebre aforisma del compositore Gustav Mahler: “La tradizione è custodire il fuoco, non adorarne le ceneri”.


Tra le decine di contributi degli chef chiamati a raccolta, siamo certi che alcuni di essi continueranno a riverberare in futuro per la bontà delle idee presentate, e perché ci pare che mai come IN questo anno sia forte il bisogno di costruire un pensiero di cucina che affondi radici nel passato, da intendersi come tradizione tout-court, ma anche come ricordo di un vissuto personale che nel trasporsi nel presente si fa contemporaneo, evoluto, a suggellare quel felice concetto per cui una tradizione è una innovazione riuscita.

 

Carlo Cracco



Carlo Cracco si è presentato sul palco di un affollatissimo Auditorium con uno dei suoi grandi classici, il Rognone e Ostrica, che come un ricordo riverbera e si adatta al cambiamento e alla crescita di un cuoco sempre più consapevole, ma non meno curioso di indagare la materia. Nato nel 2010, in tutti questi anni non ha mai cessato di stupire per i contrasti e l’intensità dei sapori, né Cracco si è mai stancato di cucinare. Ed eccolo riproposto in una nuova versione, con il rognone stavolta scottato e sgrassato in aceto e quindi cotto con burro e salvia, a incontrare quindi l’ostrica cruda e tritata, in un involucro a base di una salsa di ostriche che prende la forma di un sasso.

 

José Avillez



Dal Portogallo è arrivato anche José Avillez, chef e imprenditore di una galassia che conta una ventina di locali in patria e non, che trovano la punta di diamante nel bistellato Belcanto di Lisbona, un ristorante in cui i menu degustazione si dispiegano continuamente all’insegna della memoria, ora nel decantare l’epica della storia nazionale in una metafora culinaria, ora nel rivisitare in chiave personale i piatti simbolo della tradizione locale, come nel caso presentato a Milano, il pesce grigliato tipico dei ristoranti di mare che si ricongiunge al Giappone – scoperto dai portoghesi nel 1543. Gli spunti storici e geografici permettono ad Avillez di presentare un branzino accompagnato da un dashi e una crema di avocado affumicata che rievoca il sentore affumicato che la brace conferisce al pesce, in una sintesi narrativa che Avillez così giustifica: “Solo gli esseri umani sanno raccontare storie e raccontare storie è l’unico modo per creare nuove memorie”.

 

Danilo Ciavattini



Dal palco di Identità di Pasta, nell’ormai consolidata collaborazione con il Pastificio Felicetti,  e presieduta da Eleonora Cozzella,  grande esperta in materia – molti cuochi hanno declinato il carboidrato italico secondo la propria geografia sentimentale: Danilo Ciavattini ha raccontato la sua Tuscia nel ricordo della civiltà contadina trasmessagli dal nonno, in un excursus che dai sapori atavici allo scarto zero passa dal ricordo della scafata – piatto tipico a base di fave, carciofi ed erbe aromatiche, a quello degli spaghetti con acqua di polpo, parmigiano ed erba cresta di gallo. Anche Cracco attinge al territorio delle sue origini, passando per Marchesi, ed ecco che eleva la tradizione rustica vicentina realizzando uno spaghetto con olio aromatizzato all’aringa e polenta cremosa, elegante e gustosa tanto quanto il secondo piatto che omaggia la cassoela lombarda, nel tentativo di nobilitare i cavoletti di bruxelles abbinati a un ragù di costine di maiale, ché “il segreto è cercare di essere più semplici e più golosi possibile”.

 

Riccardo Gaspari



Dalle montagne di Cortina, Riccardo Gaspari porta dal suo SanBrite una passeggiata nel bosco che prende forma in uno spaghetto risottato in brodo di gallina ed erbe – finocchietto, pino mugo, ginepro, licheni caramellati – e una spolverata finale di briciole di pane al levistico. Note balsamiche di resina e pinolo fresco che proiettano in tempo zero tra le vallate dolomitiche.

 

Adriano Baldassarre



E Adriano Baldassarre dichiara da sempre che la sua cucina prende le mosse da un ricordo – e attualmente al suo Tordomatto il menu Tradizione in Progressione è un vero e proprio viaggio nei quartieri storici di Roma – e si fonde con suggestioni esotiche per farsi cifra originale, come nel “sistema pasta” da lui ideato per la cottura risottata in acqua di pomodoro e polveri ed erbe, e come proposto nei due piatti, gli spaghetti alla puttanesca e quelli con funghi e burro al foie gras. Unico intervento femminile, che certamente rappresenta un case history che si sta affermando in maniera sempre più solida sulla scena culinaria, è stato quello di Isabella Potì, chef del Bros di Lecce che ha esordito la sua lezione leggendo un manifesto che è profondità di pensiero e dichiarazione di amore e intelligenza: “Il gusto guida ogni nostra scelta gastronomica. Ingredienti e tecnica vengono messi a servizio del sapore, perché a volte la tecnica è fine a se stessa e l'ingrediente può diventare un limite. Perseguiamo il gusto contro ogni forma di omologazione, sia estetica, che tecnica o territoriale. Stiamo lavorando da un po' di tempo sul rancido, un difetto che se dosato, può divenire un pregio. Così come in Salento, nel suo storico isolamento, ha conservato alcuni aspetti culturali che in passato erano rancidi, mentre adesso sono valori riconosciuti e rispettati”. Una premessa che unisce la passione per il territorio alla tradizione e alla sua necessaria evoluzione e attualizzazione, per dare il la ai due piatti preparati in diretta, il Timballo di spaghettoni con tartare di anatra acidulata, e la Pasta, aglio, grasso rancido e peperoncino, già bandiera del Bros-pensiero che consacra la profondità di un progetto culinario che è già molto solido.

 

Dominique Crenn



A proposito di donne, l’ultimo giorno è stato dominato dalla straordinaria lezione di Dominique Crenn, chef francese del neo tristellato Atelier Crenn di San Francisco, che ha commosso per il suo accalorato ricordo del compianto Luciano Zazzeri e Anthony Bourdain, e che ha emozionato nel raccontare la sua filosofia di cucina. “Dobbiamo pensare prima di cucinare” ha esordito, studiare e capire gli ingredienti, conoscere da dove provengono, e valorizzarne i sapori, sempre in nome della sostenibilità ambientale, sono questi i suoi cardini. Donna dalla grande umanità e convinta ecologista, ha sottolineato più volte le problematiche legate al clima e all’inquinamento dichiarando il suo impegno ambientalista, e non ha mai trascurato l’importanza dei rapporti umani, della libertà di espressione – in un video che racconta il suo ristorante, al posto dei piatti compaiono figure che danzano sulla spiaggia al ritmo delle onde, e scorrono sullo sfondo dei versi che la Crenn stessa ha composto, da amante della poesia – che nel favorire la crescita personale contribuisce al miglioramento collettivo e alla consapevolezza di sé.

 

Massimo Bottura



Che poi sono gli stessi valori che anche Bottura ha con proverbiale entusiasmo propugnato nel suo intervento. Trascinatore di folle, rockstar con innata affabulazione, Bottura non ha deluso la platea debordante. “Cultura, conoscenza, consapevolezza, senso di responsabilità” è il mantra che accompagna lo chef da quel 19 marzo 1995 in cui ha aperto l’Osteria Francescana. Bottura ripercorre i suoi esordi coi grandi maestri – Georges Cogny e Ducasse tra tutti – e le grandi aspettative che lo hanno portato a fare sacrifici in nome di un sogno. E se “il passato noto è ancora un punto di riferimento in chiave critica e mai nostalgica, con gli occhi di un bambino cresciuto sotto il tavolo di cucina dove la nonna tirava la pasta ogni fine settimana, ancora oggi lo sguardo, la sensazione è quella di sentirsi dei bambini che si divertono a sperimentare. Ogni cosa che pensiamo è compressa in bocconi masticabili, perché il cibo oggi non è solo la qualità degli ingredienti ma è la qualità delle idee. Per creare un piatto, una ricetta, oggi ci vuole consapevolezza, visione, intuito, ci vuole fede, perché quando sbagli devi crederci e continuare ad andare avanti. La visione è il crocevia tra il razionale e l’emozionale, la passione e la logica, e non è mai un puro atto intellettuale. La consapevolezza è il mezzo: tu sai chi sei e puoi farlo, e hai una brigata che ti permette di poterlo fare, è la cassetta degli attrezzi, quello che hai imparato e quello che sei. L’intuito arriva nel momento in cui cadi, perché speso cadi e alzando lo sguardo scopri il mondo da una prospettiva diversa, come quella di un bambino che guarda il mondo da sotto un tavolo. È il lampo di luce nel buio, il nostro compito è quello di non perdersi nella quotidianità, e noi dobbiamo catturare quel lampo e metterlo in pratica, nei piatti.


Un ristorante italiano oggi è come una bottega rinascimentale, un laboratorio di idee dove prima di tutto produciamo cultura, connettiamo l’arte con l’agricoltura, l’ospitalità con l’artigianato, la tecnica con l’improvvisazione. E sono connessioni importantissime, perché ci permettono di non isolarci nella nostra cucina. Le opere d’arte in sala sono diventate ormai come delle finestre che si affacciano su dei panorami di idee, che raccontano ai nostri ospiti il nostro processo creativo, idee che espandono gli orizzonti e aprono delle possibilità. Supportiamo l’agricoltura, e il nostro lavoro è quello di farci ambasciatori dei contadini, degli allevatori, dei pescatori, dei macellai, dei casari, e con molti di loro abbiamo fatto molta strada, e sono per noi dei riferimenti a livello mondiale e sono cresciuti con noi. Raccontiamo la nostra terra attraverso i nostri piatti, e formiamo ragazzi, cuochi e camerieri di ogni età che arrivano da tutto il mondo pieni di sogni e di entusiasmo e con il solo desiderio di imparare. Ecco perché il cibo è un’espressione culturale. E il segreto di ogni ristorante è la squadra, il team, non è mai una persona sola, bisogna avere una squadra di persone giovani e unite che credono nel progetto e ognuno porta qualcosa di sé. Ogni servizio è come giocare la finale della Coppa del Mondo.


Nella quotidianità e negli obblighi in cui è facile perdersi, è necessario mantenere uno spazio aperto per la poesia, in modo da potercisi tuffare e immaginare scenari e rendere visibile l’invisibile attraverso i piatti. Cultura conoscenza, coscienza, senso di responsabilità. Nelle stesse botteghe in cui creiamo cultura, promuoviamo l’agricoltura, il turismo, la formazione, abbiamo trovato un nuovo modo per esprimerci attraverso gesti sociali, perché è qui che ci porta la consapevolezza di essere responsabili l’uno con l’altro, nel team come nei confronti della nostra comunità, perché è importante comunicare un territorio intero, non solo la Francescana, e fare rete.” La menzione al progetto del Tortellante che insegna ai ragazzi disagiati a fare i tortellini che vengono commercializzati, è solo uno degli ultimi aspetti promossi da Bottura che insieme alla continua espansione del Refettorio, sono la summa degli ideali di responsabilità, bellezza e condivisione che caratterizzano la bussola botturiana.

 

Riccardo Camanini



Mirabolante anche la lezione di Camanini introdotta dalla citazione di un brano di De Gregori: “Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi: / la locomotiva ha la strada segnata, / il bufalo può scartare di lato e cadere”. Ed è proprio lo scarto, lo scarto emotivo, l’input da cui scaturisce una ammaliante successione di 14 piatti che Camanini presenta come un fiume in piena. “La gola è la mia parte emotiva, è la parte più emotiva che un cuoco può raccontare” spiega prima di partire con un piano sequenza lungo trenta minuti.


Mezz’ora per 14 piatti che riassumono il percorso sin qui svolto proiettandolo in avanti: dalla Crema di sedano rapa, carrube, mandorla bruciata (trompe-l’œil olfattivo che ricorda una pizza ma che è anche un omaggio alla Sicilia), il Luccio in salsa Albufera quasi vegetale (a dimostrazione la regalità classica non è sminuita nel sostituire il foie gras con l’arachide, o il blanc de volaille con il luccio), lo Spaghetto gluten free (la cui consistenza al dente è resa dal condimento a base di granchio fritto, concentrato di pomodoro e peperoncino), 84 ore di pasta al dente, pomodori Marinda e pistacchi (uno studio complicatissimo sulla consistenza della pasta ottenuta per retrogradazione che più che alimentare si configura come antropologia del gusto), Riso in rosso riscaldato, prugna, vermouth e pepe sancho (con un lavoro accurato sulla concentrazione del pomodoro), Infiorescenza di broccolo grigliato, grasso d’anatra, crema di broccolo fiolaro, limone e peperoncino (un must già da un anno che suggella il ritorno alla brace e l’importanza sempre più cruciale del vegetale che non è più contorno, e l’aggiunta del piccante che rimanda alla green paste quale omaggio all’amicizia con Gaggan che lo ha ospitato a febbraio), Anguilla al sangue, Seppia in bianco (un’altra conferma, una sorta di sushi inverso con la tartare di seppia a fare le veci del riso), Persico trippato, senape, miele e limone, Sangue e gelsi, Morso, Bré stagionato, burro, vaniglia (un formaggio della Val Camonica, dalla consistenza simile al bitto e il gusto pronunciato come un bagoss, reso tondo dall’aggiunta del burro che gli restituisce grassezza sottratta dalla stagionatura, e dalla nota insospettabilmente armonica della vaniglia che ne esalta la componente lattica), Mela grattugiata, yuzu kombawa, wasabi, sale grosso (come un wasabi a ripulire la bocca prima del dessert), Pan bagnato, passatina di more, gelato alla vaniglia in bianco (ritorno alla merenda d’infanzia e omaggio alla tradizione francese ed europea del pain perdu con un tratto di eleganza personale).

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