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Identità Golose 2018. Nel segno del fattore umano e di un sano recupero del tempo

di:
Marco Colognese
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Si è conclusa la quattordicesima edizione di Identità Golose Milano, uno dei più importanti congressi gastronomici del mondo. Un’edizione colma di eventi nel segno del fattore umano. Ecco com’è andata la kermesse creata da Paolo Marchi e Claudio Ceroni.

L'Evento

Identità Golose 2018. Nel segno del fattore umano e di un sano recupero del tempo


I grandi congressi di gastronomia racchiudono piccoli universi. Uno dentro l’altro, ramificano le loro propaggini in ambiti sempre più vasti ed eterogenei, fino ad abbracciare quasi ogni campo dello scibile. Identità Golose è un indispensabile punto di riferimento in Italia, in mezzo a una pletora di eventi che spesso rivelano strutture concettualmente deboli e utilità marginali difficili da codificare anche per gli addetti ai lavori. In quanto piccolo universo alla sua quattordicesima edizione, raccontare nei dettagli la kermesse creata da Paolo Marchi e Claudio Ceroni è impresa faticosa e una qualunque cronaca delle tre fibrillanti giornate milanesi poco aggiungerebbe ai fiumi di informazioni circolate e ancora circolanti nel web, per questo motivo tenteremo qui un approccio dedicato a quelli che potremmo definire i nostri, personalissimi “highlights”.

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Annata fitta, fittissima, questo 2018 di Identità. Del resto, il tema portante del congresso, il “fattore umano” era una vera e propria bomba a orologeria da un punto di vista contenutistico. Lo stesso Paolo Marchi ha affermato “Quando ci abbiamo pensato mi sembrava quasi banale e un po’ scontato. Ma a stare attaccati a telefonini e computer ci dimentichiamo di tante piccole cose. Nel 1976 aiutavo un giornalista sportivo alle olimpiadi invernali di Innsbruck a trasmettere i pezzi utilizzando uno strumento particolarissimo, una telescrivente che allora sembrava una modernità assoluta. Poi i fax, grandi come le lavatrici, ma non è che una volta ti potessi portare dietro un fax, non eri quindi così perseguitato dalla tecnologia. Adesso invece è ovunque e abbiamo perso la capacità di staccarci da queste cose e rimpossessarci un po’ di noi. Così ho creduto fosse giusto scegliere questo tema, perché ci siamo dimenticati il fattore umano. Su questo filo conduttore gli interventi sul palco di Identità di Sala, da Roca a Zappile alle sorelle Cotarella, per dire come stia cambiando il fine dining e ricordarci l’importanza della convivialità”.

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Grandi identità di sala quindi con gli autoctoni Alessandro Pipero e Beppe Palmieri e Will Guidara dell’Eleven Madison Park nella grande mela e sale gremite per gli interventi dal firmamento, dalla nuova cucina francese di Yannick Alléno, all’estro mediatico di Gaggan Anand, numero uno asiatico con il suo menu a base di emoji, al magico trio del barcellonese Disfrutar; dall’ottimismo visionario del “buongiorno” di Massimo Bottura con la sua intera brigata, alla ricerca di essenza e consapevolezza al servizio della materia di Massimiliano Alajmo.

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All’afflato patriottico di Carlo Cracco passando per l’emozione commossa di una Antonia Klugmann, profondamente autentica e per nulla contaminata dalla sua recente esperienza di giudice televisivo che conclude la nostra chiacchierata con “spero di cucinare per il resto della mia vita”, fino all’ascetica ricerca di Norbert Niederkofler, indiscusso guru delle montagne altoatesine.

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Ancora, il sogno del laboratorio del pane di Niko Romito e la multidisciplinarietà nella ricerca di Virgilio Martinez in un Perù impegnato a valorizzare il suo patrimonio alimentare, agricolo ma soprattutto umano. Non solo piatti quindi, ma vicende e racconti personali.

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Toccante è Ana Roš quando ci narra la sua esperienza: “l’anno scorso ero veramente stanca ed esausta e sono caduta proprio in fondo al buco in cui uno deve cadere per rendersi conto che bisogna riuscire a venirne fuori, che il fattore umano inizia da noi stessi e noi chef spesso dimentichiamo di vivere la realtà, dimentichiamo di essere felici, sorridere e parlare di altre cose oltre che di cucina. Perché secondo me solo il cuoco felice può rendere il cliente felice, d’altro canto quando lo siamo trattiamo anche le persone intorno a noi in maniera diversa. Dovremmo quindi renderci conto che occorre fare di tutto per rendere felice (e operativo, perché ci sono anche i conti da pagare) il nostro team: solo un’Ana creativa e forte può mantenere vivo il team nella lontana Caporetto. Serve saper combattere e solo ritrovando gioia e spirito puoi guardare avanti senza perdere la creatività. Perciò il mio progetto per il futuro è importantissimo, bilanciare la mia vita privata.” Ma il recupero della dimensione privata è un dato ricorrente perché in un modo o nell’altro i grandi protagonisti di questo mondo spiegano come sia indispensabile un sano equilibrio interiore per sopravvivere serenamente a un contesto sempre più frenetico, competitivo e di una densità temporale quasi violenta.

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Enrico Crippa, per esempio, dopo averci spiegato quanto sia fondamentale essere quasi degli psicologi per gestire con successo staff e brigata “a una persona devi parlare in un modo, con una devi scherzare e con l’altra essere serioso, uno devi caricarlo e l’altro devi trattarlo più dolcemente”, ci svela che per il futuro amerebbe aprire “qualcos’altro, non in giro per il mondo, ma sul territorio, qualcosa di più semplice, una trattoria. Perché abbiamo un territorio ricchissimo”. Allo stesso modo Riccardo Camanini, reduce da un’intensa prestazione in cui ha scoperto proprio sul palco di aver ottenuto successo con un affascinante esperimento che comprendeva pastori bergamaschi, carne di pecora, la rudimentale tecnica della “sbernia”, miele e cera d’api, ci ha parlato del suo desiderio di “equilibrio di vita.

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Non manca l’esperienza di un grande personaggio come Simone Padoan, che definire pizzaiolo è piuttosto riduttivo, il quale da precursore con il suo “I tigli” ha rivoluzionato un contesto fino a un paio di decenni fa appannaggio pressoché esclusivo di Napoli e dei suoi migranti, introducendo un modo differente e molto più vicino all’alta cucina di gustare il piatto forse più popolare al mondo. Con tutto il suo staff al seguito, tra sala e cucina, perché “può essere sì il pensiero di una singola persona che crea l’idea, ma senza il motore del gruppo che porta avanti tutto non si va da nessuna parte. Sono i miei ragazzi il vero volto de I Tigli. Mossi dalla passione, perché qui in Italia non lo fai per lo stipendio, perché i salari nella ristorazione non sono adeguati a tutto quello che i ragazzi danno quando lavorano”.

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A proposito di ragazzi, bello incontrare gente come Floriano Pellegrino e Isabella Potì, “Bros”, leccesi, parte di un gruppo in cui il più anziano ha ventisette anni con una media di ventidue. Dice Floriano “stiamo sempre a confrontarci, è un continuo meeting, nessuno ci ha mai regalato niente e l’obiettivo che abbiamo ogni mattina è essere migliori del giorno prima, giorno per giorno. La nostra cucina a Lecce? Siamo sempre stati convinti di quello che volevamo fare, non abbiamo nulla da perdere e non ci poniamo limiti”. Se non sono fattore umano e forza vitale questi! Energia e una visione rosea del futuro (e come non averne) anche per Edoardo Fumagalli, il quale rappresenterà l’Italia il prossimo giugno nella finale della San Pellegrino Young Chef 2018. Per Edoardo “prima che chef siamo persone, sapersi rapportare in modo aperto è fondamentale, perché grazie al confronto c’è un miglioramento istantaneo. Come sono arrivato in finale? Grazie alla semplicità, pochi ingredienti, puliti e d’impatto”. Esattamente com’è lui.

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Impossibile non nominare a questo punto Enrico Bartolini, chef del Mudec di Milano e mente industriosa di un bel po’ di altre aperture di successo, quello che potremmo definire scherzosamente il cacciatore di stelleanche se”, dice, “il termine non mi piace. È successa una cosa incredibile l’anno scorso, proprio non mi aspettavo ne arrivassero quattro (di stelle Michelin n.d.r.) in tre ristoranti diversi” e, riferito al tema del convegno: “Se non c’è desiderio di essere umani è meglio non esistere, quindi l’importante è che si applichino dei valori, delle identità e dei principi. Se le persone che lavorano con noi non sono molto brave dobbiamo aiutarle a esserlo di più, se invece lo sono devono aiutare chi non lo è. Bello che a volte ci si debba occupare del loro umore quando sono meno coinvolte. Non è che se uno manifesta un problema questo diventi un fastidio, chiaro che tutto ciò non va mescolato con l’attenzione che dobbiamo dare agli ospiti che sono la nostra vera, grande ricchezza.

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Identità Golose non si ferma mai, di novità in arrivo ce ne sono tante, ma la più significativa è Identità Milano, primo hub internazionale della gastronomia. Si troverà nella ex sede della Fondazione Feltrinelli. Paolo Marchi ce la racconta, orgoglioso: “Se vai a vedere, i 50 best sono nati per sbaglio da una chiacchierata, avevano una pagina libera e hanno iniziato a chiedersi quale fosse il più grande ristorante al mondo, perché si era rotta la dittatura francese. L’hanno inventato gli inglesi, pare strano non l’abbiano fatto i francesi che sono abituati a classificare tutto. In questo modo sono riusciti ad allineare tutti i continenti, comprendendo quelli esclusi dalla Michelin. Expo e il suo successo ci hanno dato l’impulso, abbiamo cercato una struttura nella quale fare degustazioni, incontri, invitare cuochi durante tutto l’anno. Non è stato facile ma ce l’abbiamo fatta e il fatto che la fondazione Feltrinelli apra a noi è un segno di rispetto verso la gastronomia e la conoscenza dei cuochi e della ristorazione. Aprirà a settembre”. E ci si divertirà!

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