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Ci ha lasciato Gualtiero Marchesi

di:
Alessandra Meldolesi
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Il grande chef, fondatore della nuova cucina italiana, si è spento a 87 anni nella sua casa di Milano, circondato dall’affetto dei familiari. Era malato da tempo.

La Notizia

Ci ha lasciato Gualtiero Marchesi


Quando ho visitato Ferran Adrià qualche settimana fa a Barcellona, mi ha mostrato la copertina di una rivista appesa a una specie di filo da bucato, da un lato all’altro di Bulligrafia, e ha detto: “Vedi, quella è la definizione giusta per la mia cucina: nueva nouvelle cuisine. Perché i grandi sono loro. Ho i libri di Gualtiero Marchesi in biblioteca”. Sicuramente ci sarà un posto per il fondatore della cucina italiana moderna, nella sua titanica opera sulla ristorazione. Il giusto posto, quello che in patria gli è stato lungamente negato.

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Paolo Lopriore, l’allievo prediletto; Carlo Cracco, che ne incarna al meglio la filosofia; Enrico Crippa e Andrea Berton; Davide Oldani e Daniel Canzian; Pietro Leemann e Silvio Salmoiraghi; fino a Riccardo Camanini e altri ancora, innervati fin nella provincia più profonda. Sono innumerevoli i cuochi che Marchesi ha formato, cosicché da decenni la cucina italiana porta il sigillo dei suoi insegnamenti: il minimalismo e la separazione, lo sguardo rivolto a Oriente, l’alleggerimento e l’ammodernamento del repertorio regionale, l’amore per l’arte svolto nel senso del pittorialismo. Una tendenza alla riduzione instancabile, che oggi è tornata di attualità a opera di giovani cuochi, marchesiani di seconda oppure terza generazione, passati cioè per gli insegnamenti di Cracco o di Berton. Nessuna cucina nazionale, forse, ha un’identità altrettanto definita.

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Ma la rivoluzione di Marchesi non è rimasta confinata dietro il passe. Da geniale cuoco non cuoco, figlio di albergatori e rampollo della borghesia milanese, approdato alla cucina nell’età della ragione, dopo una trasferta dai Troisgros, innamorato dell’arte e della cultura non meno che della moglie Antonietta, pianista di talento, Marchesi non ha mai smesso di dare scandalo, interpretando con anticonformismo il suo ruolo. Lo racconta lo storico ritratto con il papillon sotto la divisa, a rappresentare un’inquietudine identitaria e una ribellione allo stereotipo grandguignolesco del cuoco. Soprattutto lo testimonia il dialogo ininterrotto con alcune fra le menti più brillanti del Novecento, come Piero Manzoni e Gillo Dorfles, sfociato in opere di letteratura gastronomica miliari, da Oltre il fornello a La Tavola Imbandita, con Luca Vercelloni; nonché in un patrimonio di concetti ficcanti e attuali: cucina totale, meno cucina, cucina timbrica e tonale. Parole destinate a sopravvivergli a lungo.

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Restano i piatti, dalla seppia al nero, giapponismo in clamoroso anticipo su Ferran Adrià, al risotto con la foglia d’oro, ipnotico mandala sulla sacralità della tradizione, al dripping di pesce, opera fondativa di tutto un genere. Restano gli insegnamenti tramandati dagli allievi più devoti, indifferenti alle ingiustizie di una critica, che ha privato Marchesi del suo giusto riconoscimento, come sarebbe stato inconcepibile al di fuori dei confini nazionali. Lui primo tre stelle italiano di sempre, nel 1985, e primo cuoco a restituirne due nel 2008, ancora una volta in anticipo sui tempi. Restano i progetti realizzati e non, come la Scuola internazionale Alma, da cui si era dimesso qualche mese fa, e la casa di riposo per cuochi, in via di apertura a Varese. Soprattutto la forza di una cucina nazionale dal DNA ben definito: “Cosa mentale”, avrebbe detto Leonardo Da Vinci. Da Gualtiero Marchesi fino a Massimo Bottura.

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