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Segnali d’Inkiostro: il nuovo menu di Terry Giacomello

di:
Alessandra Meldolesi
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Riflessività e tecniche nascoste, cosmopolitismo e territorio, tanta eleganza con punte di creatività da serendipity: è il nuovo menu di Terry Giacomello all’Inkiostro di Parma.

La Storia

La Storia di Terry Giacomello


Sta prendendo sempre più forma, la cucina di Terry Giacomello. A un anno abbondante dal suo arrivo a Parma, l’ultimo tratto di Inkiostro è tanto sicuro quanto ampio e sinuoso, il pennino appuntito sulla porcellana del piatto. Molta tecnica, ma più sorniona; talvolta anche padella e voglia di semplicità; affondi emiliani, spesso laterali, senza indulgere alle destrutturazioni; piuttosto cosmopolitismo e palleggiamenti col mappamondo, da autentico virtuoso. Soprattutto eleganza, vero segno di un Inkiostro sfumato, tutto in nuance. Che sta voltando pagina rispetto a qualche spagnolismo e “molecolarismo” di troppo.

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“Amo l’inverno”, dice lo chef. “Perché restituisce il senso della povertà in cucina, mentre la primavera incipiente è vita, luce ed energia. Alcuni piatti sono nati un po’ per caso, nel tentativo di indagare la materia, perché sono un tipo curioso. Ma in generale amo sperimentare qualsiasi cosa trovi in giro per il mondo: se non la conosco, cerco di usarla almeno una volta. Per esempio i tuberi peruviani, le radici di cerfoglio ed erba benedetta, dalle note di chiodo di garofano. Ed esploro anche ciò che mi circonda: per esempio il midollo del prosciutto, stagionato al massimo 12 mesi, sennò diventa troppo forte, rancido e salato. Oppure l’asparago, che svuoto con il trapano e farcisco di strutto, per un effetto coulant da tortino. La sequenza è articolata in crescendo e per contrasto, in base all’alternanza di consistenze e gusti, liquido e solido, dolce e salato. Con i primi piatti ancora al centro, ma non durerà per sempre. Da fine marzo è a pieno regime anche la serra già in uso dietro al ristorante”.

I Piatti

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Il menu degustazione, composto di 11 portate, costa 120 euro. Gli appetizer svolgono consistenze croccanti: il nido di kadaifi con crema di carota e zenzero; le chips di alga nori al riso soffiato e spezie vadauvan, sorta di maki invertito; la puristica ostia di riso con sale e olio; lo zenzero secco con lardo, salsa di fagioli, yuzu e polvere di shiso rosso; la foglia di alloro con lime, zenzero e pasta di curry rosso, per ripulire a fine sequenza. A seguire il cracker con grasso di prosciutto in provetta, che ricostruisce la sensazione di una crescenta con i ciccioli ma secca, e le chips di manioca tipo “polvilho” brasiliano. Il benvenuto è un tartufo di baccalà, mantecato e panato al nero di seppia, come una frittellina ma sotto sembianze dolci, servito con salsa di miso bianco, emulsione di rapa rossa e aceto. Segue un’infilata di piatti perlopiù astratti, che pescano in un database sterminato di ingredienti globali.

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Apre l’intarsio freddo di zucca marinata in aceto giapponese per sushi e arrotolata in stile Noma, servita con spuma di nocciola, polvere di bottarga di tonno e colatura di alici. Esalta l’ittico dell’ortaggio con un esito agrodolce e una doppia sapidità sulla rotondità grassa.

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Seguono i canestrelli con plancton, succo di melone invernale, neve di tomatillo verde (bacca più dolce del pomodoro acerbo), salsa di soia, germogli di soia e ficoide glaciale. Nuovamente sotto il segno dell’umami, al crocevia fra esotismo e latinità, di cesello sui secondi e terzi tempi con una prodigiosa sensibilità per le testure.

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Ottimo il foie gras di oca, fritto intero nell’extravergine per una tostatura particolare, finito in forno, laccato alla soia e scaloppato. Viene servito con una schiuma di latte, nel ricordo della marinatura classica, e una salsa di polline che asciuga la grassezza attraverso i flavonoidi, per un effetto latte e miele.

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Dopo le tante paste non paste del passato, il finto riso di acqua di zafferano gelificato all’agar-agar, chicco dopo chicco negli stampini, simula la mantecatura con la purea di cavolfiore, sposata al “caviale” come Robuchon comanda, ma tobiko, per la leggera acidità e dolcezza, più qualche goccia di olio allo zafferano. La testura finale è quella di vescicole di arancia, lisce e fragranti sotto i denti. “Perché a elBulli ho imparato quanto è importante la sorpresa”.

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Il primo vero e proprio è la sfoglia di malto, dalle note amare e tostate di caffè, con maionese di mozzarella di bufala per la grassezza, succo di ribes rosso per l’acidità, trippe di baccalà gelatinose e sapide, foglie di romice sanguineo per un’ulteriore freschezza e un tocco di galanga piccante.

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Arriva dalla Catalogna l’oloturia, o cetriolo di mare, mollusco che i pescatori italiani sono soliti gettare. Pelata previo congelamento, viene appena scottata in padella, per una testura soda e leggera, quasi vegetale, e abbinata a mango, olive nere, uova di merluzzo affumicato o mentaiko.

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Squisita la ventresca di tonno appena scottata, stile tataki, servita con scalogno di mare, crema di bacche di olivello spinoso, succo di giunco marino, sorta di coriandolo salato, e noccioli di taggiasche effetto riso integrale. Un piatto goloso e poco tecnico, in equilibrio grasso-amaro, con un ricordo di insalata siciliana di olive e arance.

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Mentre il cervo è servito con una finta corteccia, composta di due ostie passate nello sciroppo, al nero di seppia e al naturale, poi sovrapposte, e una linfa di betulla estratta come resina di pino o sciroppo d’acero, incidendo l’albero e facendone ridurre gli umori. Completano il piatto per un sentimento invernale i tuberi peruviani coltivati in alta Val Badia.

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Un’altra corteccia giace sul piatto del dessert: viene ottenuta dai residui fibrosi della macchina per estrarre l’olio dalla frutta secca, impastati e resi croccanti con lo sciroppo. A guarnirla sono ganache di cioccolato bianco tostato alla cannella, squisiti licheni sbianchiti contro l’amaro e caramellati, per un crunch impalpabile, noci sciroppate alla maniera trentina, colte a giugno e macerate per due mesi, da mangiare complete di mallo e guscio.

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Per piccola pasticceria arrivano in tavola croccante di pistacchi e pinoli, tartufino, tartelletta alla crema di formaggio e cannella, cioccolatino al pepe Timut, calippo di ossicocco, chupa chupa effervescente con polvere di viola mammola, grissino di mais soffiato e caramellato con pan masala, per deodorare la bocca alla maniera indiana.

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Ma già premono i nuovi piatti. La vongola centenaria delle Fær Øer, scoperta al Noma, viene servita scaloppata in stile sashimi con aria di aceto allo shiso rosso, per una nota quasi fruttata, e polvere di limone iraniano, praticamente liofilizzato dal sole. Dove al centro è la consistenza callosa, per quanto duplice, del mollusco con un ricordo classico di huître au vinaigre, magari di lamponi.

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Oppure, diversamente emiliane, le tagliatelle di spaghetto di mare, alga scoperta al mercato in Belgio, passata in diversi bagni per mitigare la carica salina, poi condita con olio di sesamo, rafano, burro bianco e wagyu beef all’olio grigliato al posto del prosciutto crudo.

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Soprattutto c’è lei, la “medusa”, inventata un po’ per caso da un ingrediente tanto naturale quanto ignoto sul quale offriremo presto delucidazioni in un articolo dedicato.

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E ancora la panna cotta al lievito di birra con gelato alla regina dei prati, un fiorellino dal retrogusto mandorlato, salsa mou e meringhette al frutto della passione. Sembra food pairing ma è istinto puro.

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

Indirizzo

Ristorante Inkiostro

Via San Leonardo 124 – 43122 Parma

Tel. +39 0521 776047

Mail: info@ristoranteinkiostro.it

Il sito web del ristorante

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