Ristoranti di tendenza

Inganni ad arte: la nuova cucina di Andrea Giuseppucci

di:
Alessandra Meldolesi
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A Tolentino, dopo l’exploit iniziale, Andrea Giuseppucci coglie la sfida di una ristorazione a tutto tondo. Può contare su spazi rinnovati, anche nelle attrezzature di cucina.

Il Ristorante

Ristorante La Gattabuia


Non ci sta più, Andrea Giuseppucci, a indossare i panni dell’enfant prodige, appena ventitreenne in mezzo a una brigata giovanissima. Quello che ha edificato pian piano intorno a sé, con la pazienza di una chiocciola, è il guscio di un ristorante praticamente perfetto, lustrato a puntino dalla recente ristrutturazione. Sui pavimenti in resina grigio perla poggiano cinque tavoli (più un sesto nell’enoteca), rinnovati nella mise en place e illuminati strategicamente da faretti Groppi.

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Mentre le pareti bianche forniscono uno sfondo neutro alle opere d’arte imprestate da un collezionista privato: al momento tele di Alberto Gianquinto e Gino Rossi, fotografie di Maurizio Galimberti e statue in cartapesta firmate Maurizio Brenna. Gli operai tuttavia hanno sudato soprattutto oltre il pass, spazio che è stato totalmente ripensato con una cucina su misura per la metratura risicata e un totemico Rational. Nessuno lo direbbe ma siamo a Tolentino, nella provincia bella e depressa delle Marche meridionali, dove da sempre latita una borghesia gourmet.

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La Storia

“Giudicatemi adesso”, è la richiesta dello chef, che fino a qualche settimana fa disponeva di un unico piano di lavoro e non poteva contare sulla camera di un forno. Condizioni improponibili, che non gli hanno impedito di attirare l’attenzione di critici e gourmet, grazie a una biografia che assomiglia alla case history di un sognatore. Tolentinese purosangue, cresciuto a spiedi e vincisgrassi dalle nonne, Giuseppucci appartiene alla schiera degli “autodidatti” educati sui banchi di scuola: un anno di geometri gli è bastato per traslocare all’Alberghiero, divorato dalla passione ma svogliato sui manuali, sintonizzato sul Gambero Rosso Channel piuttosto che sulle pagine del diario, instancabile lettore di libri di cucina, anche di natura scientifica, impilati sul comodino. “Non avendo l’età per lavorare, mi sfogavo in casa, ma senza riproporre ricette preesistenti. Finché dopo il diploma non ho finalmente messo piede in un ristorante vero”.

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La gavetta dura un paio d’anni: comincia al Grand Hotel des Iles Borromées di Stresa, cinque stelle che imbandisce una cucina francese, per proseguire al Saraghino di Numana e al fianco di Marco Perissinotto. “Ho trascorso un anno a intasare le caselle dei migliori ristoranti italiani, nella speranza di spuntare non un contratto, ma un semplice stage. Eppure non c’è stato verso. Così dopo aver affiancato Massimo Garofoli al Mood, ho colto al volo l’occasione di questo locale, che mi aveva sempre affascinato”. All’epoca era un’infilata di stanzette sopra il mercato del paese, adibite originariamente a celle del carcere, con Federcaccia, Federpesca e gli uffici di una lavanderia sui campanelli. Ma durante un cooking show con l’amministrazione la voce fugge dal cuore: “Come è bello questo posto, perché non ci facciamo qualcosa?” Due mesi di lavori finanziati dal comune e via: l’anagrafe delle imprese registra la data 16 giugno 2014.

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“Ho iniziato senza sapere neppure cosa fare. Senza capitali né identità in cucina. Era il classico posto carino dove lasciare 40 euro per una serata fra amici, poi le cose sono cambiate da sole. Reinvestendo ogni euro guadagnato e riconsiderando i piatti. Molti stimoli me li ha dati Marco Perissinotto, colletto bianco di una multinazionale e instancabile gourmet, oggi mio socio. L’ho conosciuto nelle vesti di cliente e ricordo che dopo il primo pasto, mi scrisse una mail interminabile dicendo che non dovevo assolutamente mollare, perché aveva intuito una buona mano. Così pian piano si è fatta strada l’idea di combinare qualcosa insieme. Ma Marco non si limiterà a seguire la parte commerciale: è sommelier, con voce in capitolo sulla carta dei vini, ed è con lui che assaggio le novità da inserire in carta. Ho piena fiducia nel suo palato”. A completare la squadra è la ventottenne Ilaria Savi, responsabile di una carta dei vini lievitata da 180 a 320 etichette, concentrata sulle piccole cantine e sui vitigni autoctoni, per una fascia di prezzi che spazia dai 20 ai 300 euro. “Ho letto sul giornale che aveva vinto una borsa di studio come migliore sommelier del centro Italia e dopo due settimane era con me”.

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La sinergia con il territorio è un caposaldo: c’è l’orto, attualmente vangato su un terreno di proprietà di Maccari, con le sue cassette di erbe aromatiche, insalate e ortaggi di stagione; ma la volontà è quella di lavorare con gli artigiani del posto. Quanto manca al fabbisogno del ristorante arriva quindi da un gruppo di ragazzi che praticano agricoltura biologica. Soprattutto ci sono le collaborazioni con Roberto Cantolacqua, allievo di Iginio Massari e titolare di una pasticceria in paese, e con un fornaio pugliese, che confeziona pagnotte a lievito madre cotte nel forno a legna, la cui formula è stata precisata di concerto. Il menu dei Monti Sibillini, 100% locavore, costa 40 euro; i due Provocazione, composti di 8 e 5 portate, 60 e 45 euro.

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“I piatti hanno quasi sempre un aggancio nella memoria, ma non si tratta di rivisitazioni. Ci piace lavorare sui frammenti e talvolta sui refusi della tradizione, come una cottura sbagliata”. Abbondano in particolare i trompe-l’oeil, dove niente è ciò che appare, quasi a dimostrare con un tour-de-main la padronanza del cuoco sulla materia. Mundus vult decipi, ergo decipiatur, che in italiano suona “il mondo vuole essere ingannato, e lo sia”, come ripeteva fra gli altri T. P. Barnum, uomo circo per antonomasia. A patto che siano inganni ad arte, capaci di instillare sospetto e rilasciare piacere. Grazie alla mano di un cuoco sensibile e attento, calibrato nella pressione e nel gesto.

I Piatti

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Non si comincia con gli appetizer di rito, ma con un benvenuto che è quasi un’entrée: le Radici cotte e crude dell’orto con lumaca di mare, olio alle erbe amare e granita di rabarbaro. Dove i vegetali, in gran parte propri e spesso popolati da simpatiche chiocciole, sono marinati in acqua e aceto, poi sottoposti a una cottura diretta, omogenea e fulminante. Il risultato è a metà strada fra un’insalata e i sottaceti in aperitivo, con la granita di rabarbaro a esaltare l’acidità, la lumaca per il motto di spirito, la masticazione e la punta iodata, le clorofille di prezzemolo e carota nell’olio per la lunghezza.

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La Parodia di un’insalata di seppia è un piccolo classico della casa, in evoluzione permanente. Si rifà a una specialità locale, che Giuseppucci non ha mai amato, al punto da rovesciarne la ricetta, e perfino il piatto su cui viene presentata. La sfoglia, ricavata alla maniera di Adrià e Uliassi da grossi molluschi abbattuti e affettati finemente a macchina, non è più cotta ma cruda e traslucida, appena passata in osmosi di acqua di ostriche per la sensazione iodata. Al suo interno, al posto dei piselli, una farcia composta dalla testa bruciata sulla ghisa, per evocare la griglia, mista a gambi di lattuga in osmosi di aceto di riso, per la freschezza e l’acidità; alla base una strisciata di nero e interiora praticamente al naturale. Dopo le innumerevoli variazioni di tagliatelle e lasagnette, una pasta di seppia che ha tutta l’aria di un involtino cinese. Viene abbinata alla tisana messa a punto da un’erborista di Tolentino con tè bianco, zenzero ed elianto, che rafforza la sensazione di cineseria, ma apre anche lo stomaco come un consommé e inverte ludicamente l’ordine del pasto.

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La ventresca di tonno, marinata nel sale fino ad assumere le sembianze di prosciutto, si prende in realtà gioco di una specialità da buffet: il crostone di tonno affumicato con pinoli e limone. Adagiata su una cialda di riso soffiato, è accompagnata da una salsa di pinoli tostati ben oltre il manuale di nonna Papera, che innescano un contrasto grasso-amaro. Più la scorza di limone cotto nella cenere per un’ulteriore pulizia, aiutata dall’insalatina di trifoglio e acetosa al posto della rucola.

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A spiccare però è soprattutto il Rombo di rombo, antanaclasi in senso stretto (e qui ci vuole il vocabolario), che riproduce la testura e gli aromi di una coppa di testa attraverso gli ingredienti più improbabili. Quindi la tartare di rombo, pesce gelatinoso per antonomasia, tanto da poter rivaleggiare con un salume che è puro collagene, ingrigito da una spolverata di alga kombu foriera di sapidità e lunghezza. Per la testina c’è la rapa bianca macerata, per i grani di pepe nero i frutti rossi essiccati, per l’arancio le sacche marinate. Del maiale resta solo il piedino, unica parte assente nella ricetta originale; mentre le lische disidratate e soffiate apportano consistenza e valorizzano gli scarti. Funzionano in fondo come le mosche di Giotto: quegli elementi introdotti in primo piano nei trompe-l’oeil, per respingere il contenuto del quadro in un altro livello di realtà, smascherandone la fallacia.

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Lo spaghetto al pomodoro è un altro inganno ad arte: rosso vermiglio, viene portato a cottura in un centrifugato di melagrana. Mentre al posto del basilico, per bilanciare la dolcezza, ci sono i rami di pomodoro con la loro tendenza amara. Più una generosa nevicata di Parmigiano.

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Fuoriesce dal genere dei trompe-l’oeil, per non sterilizzarne l’effetto sorpresa, il Risotto del cavolo, preparato senza soffritto e con mantecatura al burro bianco, secondo la scuola marchesiana, ma portato a cottura con brodo di cavolo riccio nero e verde a temperatura controllata, in modo da evitare l’effetto camomilla. Sopra, per la testura, ci sono petali ben tostati di cavoletti di Bruxelles; sotto una clorofilla di cavolo nero profumata al cardamomo e bergamotto, che riprende gli aromi dell’Angostura. “Siamo partiti dall’idea di una minestra di cavolo, ma traslata sul riso”.

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Per secondo la Triglia di fango nel fango, paesaggio commestibile con i due filetti ricomposti e appena scottati, un limo a base di lumache di terra e di mare, il cremino ricavato dalla testa e dal fegatino del pesce, impanato in una polvere di erbe amare, una cascata di foglie aromatiche dal gusto di fosso, fra cui crescione e spinaci, funghetti per l’effetto terragno e un biscotto tipo lingua di gatto leggermente salato alle erbe. Di gran lunga il piatto più complesso del menu, per una sensazione di stagno che evoca l’eau dormante dei francesi, immobile e insondabile come l’inconscio.

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Dopo il predessert di granita di cedro con mandorle salate e polvere pungente di ortiche, detergente a dovere, arriva uno dei dolci messi a punto con Cantolacqua, intersezione di pasticceria da bottega e da ristorante, ricerca gustativa e grande tecnica. E ricomincia anche il gioco, visto che la fetta di torta è un perimetro di cioccolato che vivacizza il morso, farcito con gelatina di pere leggermente salata, Streusel ai pinoli e spuma al gin, per sgrassare con l’alcol, prolungare con l’amaro e inglobare l’after dinner. “Cantolacqua non ci credeva, ma alla prova dell’assaggio ha acconsentito. Questa è l’idea di pasticceria in cui credo: il ritorno a una visione italiana”.

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Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

 

 

Indirizzo

Ristorante La Gattabuia

Piazza Martiri di Montalto - 62029 Tolentino (MC)

Tel. +39 0733 471632

Mail: info@lagattabuiaristorante.it

Il sito web del ristorante La Gattabuia

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