Ristoranti di tendenza

La sorpresa di Alessandro Panichi

di:
Alessandra Meldolesi
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Riflettori spenti sopra le due Torri: continua a crescere senza scalpore la cucina di Alessandro Panichi, giovane cuoco ligure passato per la scuola dei grandi.

La Storia

La storia di Alessandro Panichi


è una progressione geometrica implacabile, a descrivere l’impennata della nuova cucina italiana. La quale si appresta a raccogliere i frutti del sudore sparso per decenni da brigate, che stanno inondando l’attualità di un profluvio di talenti, dei quali non è facile tenere il conto. Alessandro Panichi, per esempio: uno che sul curriculum, ma anche nei piatti, racconta il romanzo della cucina italiana. Instancabile nel suo approdo bolognese, che meriterebbe ben altra ribalta sulla stampa specializzata.


Sotto l’arco si approda al termine di uno stillicidio di semafori, qualunque sia il punto di partenza; nella prima periferia cittadina, a Borgo Panigale, laddove il verde dei colli rimbalza sul muro della progettazione urbanistica. Da una parte silenzio e quiete, dall’altra un lampeggiare convulso sul grigio. Dove l’arco è quello di una porta orfana di recinzione, tanto maestosa quanto stonata nel ritagliare la sagoma di una villa seicentesca, già residenza del pittore Cesare Aretusi. Qui da quattro anni Panichi serve la sua cucina: al piano terra nella trattoria bolognese, al primo piano in versione gourmet. Il resto sono dieci camere d’albergo e gli ampi spazi per la banchettistica.


“Il cromosoma della cucina forse mi è arrivato da mio nonno, che si divertiva a imbandire grandi pasti per le famiglie dei suoi sette figli a Sarzana. Sta di fatto che fin dalle elementari, come ama ripetermi la mia maestra, dicevo di voler fare il cuoco. Mi sembrava una missione come quella del dottore, far stare bene le persone. Ho dei ricordi di vita contadina: il basilico che attraversavo per raggiungere il mare, i pinoli che raccoglievo con gli altri bambini, gli alberi di ciliegie e albicocche su cui mangiare la frutta e quel tavolo di mattonelline con il ferro delle damigiane tutt’intorno, su cui versavamo la polenta. Sarzana prima che Liguria è Lunigiana, con tante influenze toscane e prodotti censiti già da Paracucchi e Veronelli.


Mentre frequentavo l’alberghiero, poggiavo la cartella per le prime stagioni. Per esempio al Saraghino di Numana, con Massimiliano Emiliozzi e Roberto Fiorini. Per me lo choc di una cucina diversa, a due passi dal mare ma non da spiaggia: restavamo in cucina tutto il giorno, solo per gli stuzzichini ci volevano 3 ore. Poi lo stage al Papillon di Antonio Ghilardi, autore di un libro sul sottovuoto che tuttora consulto. Per me un possibile trait-d’union con Gualtiero Marchesi, il mio obiettivo finale. Ci sono tornato dopo il diploma e trascorsi otto mesi, un venerdì sera mi ha preso da parte chiedendomi dove volessi andare. È passato in ufficio, ha alzato la cornetta e ha chiamato Erbusco, ma in quel momento per me non c’era posto. Mi sembrava di sognare, perché per me Marchesi era un’icona da poster; dopo qualche giorno però è stato il suo allievo Marco Fadiga a chiamarmi prima a Torre dei Galluzzi, poi, dopo un passaggio lampo da Filippo Chiappini Dattilo, alla Pernice e la Gallina.



Ci sono rimasto quasi quattro anni, con lo stesso obiettivo in testa. Ricordo che prima di contattare Marchesi, Marco mi ha fatto un training durissimo di un mese, poi ha scritto una lettera top secret ed è andato a mangiare all’Albereta. Dopo 3 mesi di stage sono stato assunto e mi sono fermato per un anno. In cucina a quei tempi c’era Lopriore, ma quando passava il signor Marchesi tutti tendevano le orecchie. Di Paolo ricordo che è un fulmine: ha idee strabilianti, che ti lasciano basito; sa andare al cuore delle cose con una semplicità disarmante. Ho lavorato anche con Silvio Salmoiraghi, l’altro allievo più devoto al Maestro, per sette mesi al Lotti di Parigi. Un conoscitore profondissimo della materia prima e delle tecniche, tanto riflessivo quanto l’altro era carnale e umorale.

 


Sono seguiti un mese e mezzo al Pescatore, a scuola di manualità dalla signora Bruna, e un altro breve passaggio da Cracco-Peck; una stagione ad Alassio e l’approdo alla Locanda Mongreno di Pier Bussetti, con cui sono entrato immediatamente in sintonia per la sua voglia di fare. Insieme abbiamo preso la stella e rinnovato la cucina, mentre lui mi iniziava alle tecniche spagnole e al lavoro sulle testure. Il trasferimento alla Reggia di Govone però non mi convinceva, così sono tornato nella mia Liguria, alla Locanda dell’Angelo, dove il figlio di Paracucchi, Stefano, mi ha messo a disposizione quaderni e ricettari del padre, chiedendomi di rivisitare alcuni dei suoi piatti. Dopo il Duomo Hotel di Rimini, eccomi a Bologna, secondo di Guido Haverkock ai Portici e dal 2011 chef di Villa Aretusi, resort di proprietà della famiglia Caselli”.


Dopo esordi ludici e avanguardisti, che hanno ceduto il passo a svolgimenti classicisti, la cucina si è fatta negli anni più diritta, moderna e personale, imbastita per verticali secondo la lezione di Marchesi e Lopriore; ma anche secondo l’immagine di Roland Barthes, che in ogni parola della poesia moderna ravvisava “come un blocco, un pilone che affonda in una totalità di sensi, di riflessi e di residui: è un segno eretto”. Separazione e nettezza piuttosto che relazionalità, quindi, con la tecnica sospinta in secondo piano e le elaborazioni ridotte al lumicino. Ma è solo uno degli stili di Panichi, che altrove sa essere più affabile e mediato, talvolta perfino familiare.

I Piatti



I menu sono 3, composti di 4, 5 e 7 portate rispettivamente a 45, 50 e 70 euro. L’ultimo degustazione, in particolare, è al buio, viene cioè assemblato al momento dallo chef in chiave più o meno creativa, secondo l’identikit dell’ospite. Ma il giovedì a pranzo c’è anche il “menu turistico” a 35 euro, dedicato alle specialità cittadine rivisitate col sorriso, mettendo al centro la materia: la terrina di bollito con gelato di friggione, i tortellini né panna né brodo, la tagliatella al ragù croccante, il tortellone invidioso, ripieno come una lasagna, la cotoletta petroniana geometrizzata e la torta di riso.


Gli stuzzichini (il negroni ghiacciato con spuma di olive Saclà; la crocchetta di paté di fegatini di pollo panata con riso soffiato allo zafferano, tipo cricrì; il macaron ai pistacchi con mousse di Mortadella; la salsa agrodolce alla colatura di alici con cialda ripiena di polvere di cozze, ostriche e alghe; l’involtino di porro con carne di maiale, brodo di funghi e soia) preparano ad antipasti emblematici del nuovo corso. La zuppa di mandorle con sgombro marinato e affumicato, puntarelle, acciughe e caviale, per cominciare. Che sullo sfondo di una crema suadente sprigiona una sinergia fra sapidità e amaro ortogonale, mentre lo scroscio croccante del vegetale rinfresca la morbidezza delle testure. “È sul contrasto con la mandorla che si edifica il piatto, composto di ingredienti di stagione. Al ritorno da un viaggio, il ricordo di un gusto del nord”.


Oppure la foglia di radicchio con canocchia appena marinata in extravergine ligure, bottarga e lampone (in purea zuccherata sulla foglia, come aceto testurizzato sul piatto), altro antipasto crudista e materico, che ricombina gusti primari. Dolce, acido, amaro, umami, fra il cibo di strada, da addentare di corsa suonando la musica croccante della costa, e il food design nella calibratura degli ingredienti.


Si entra nella cucina cucinata con Lingua, terra, latte ed erba, “piatto nato guardando un documentario in televisione, con una mucca che brucava l’erba e la tirava su”. Quindi una lingua bollita nel brodo, poi tagliata a cubetti e marinata in extravergine ligure per un giorno, fino a consistenza tremblotante, servita con gelatina di latte leggermente salato e finta terra composta di pane al cacao, curcuma e tè affumicato. Più qualche goccia verde di gambi amari di carciofo, gel di ficoide glaciale, crema di crescione per un ricordo di bollito con la salsa verde.


Più rassicuranti i primi, come i bottoni ripieni di baccalà in brodo dolce di cipolla con olio di guanciale al pepe. Oppure il risotto all’anguilla arrostita, dentro e fuori il riso, con la polvere di barbabietola per la sensazione di terra e gli agrumi in tre stati: la scorza fresca al Microplane, la polvere amarognola di fettina intera, la julienne di scorzetta in salamoia piccante. Dove il riso è cotto alla maniera del “signor Marchesi”, cioè bagnato con l’acqua, e mantecato con tre tipi di burro: danese, acido e bianco.


Il Baccalà come se fosse alla vicentina ingrana la marcia dell’eleganza. La ricetta originale, eseguita secondo le indicazioni puntigliose della mamma di un cuoco, si converte in un gelato pacossato; le fanno da contraltare la cialda di polenta soffiata, la spuma di cipolla dolciastra, il morro infarinato e fritto, con il verdeggiare del cerfoglio per un ricordo di Marchesi e del prezzemolo in trattoria. “Mi piaceva l’idea di un classico italiano proposto in forma moderna, dove al centro tornasse la materia”. Ma a riemergere è anche la costruzione del piatto per gradini praticata da Pier Bussetti, con la ricetta originale confrontata al suo stravolgimento.


Si spinge oltre l’ottimo controfiletto di cervo appena rosolato con sale alle spezie, servito avvolto nella foglia di verza sbollentata e caramellata in forno, con una reminescenza involontaria del petto di piccione al foie gras di Joël Robuchon, soprattutto di una specialità della Lunigiana, gli involtini ripieni di macinato e ricotta al sugo. In accompagnamento c’è uno spicchio di pera in osmosi di peperoncino habanero e cardamomo, come una mostarda ma a crudo, fresca e croccante. Il classico selvatico con la frutta e le spezie per comporre la crasi, o meglio il crash, di due diverse tradizioni: l’ortaggio si inserisce come elemento di disturbo in un canovaccio altrimenti prevedibile e al tempo stesso ne bilancia la prevalente tendenza dolce, grazie alla spinta della polvere di cavolo nero.

 

Chiude Ricordo di Istanbul, biancomangiare contemporaneo nato nei mercati turchi. Quindi un’infusione di fiori secchi (rosa, geranio, gelsomino, camomilla) nel latte, leggermente gelificato alla colla di pesce, guarnito di “crumble” a crudo di tahina con sesamo nero tostato, per la testura sabbiosa e la leggera sapidità, albicocche secche e datteri, gocce di pistacchi di Bronte e petali freschi: il puro profumo di una koinè medioevale. In sala e in cantina un’altra vecchia conoscenza della Pernice e la gallina: Giuseppe Sportelli. Amministra una carta composta di 400 etichette, con un occhio di riguardo per riesling e bollicine non solo italiane, abbinamento elettivo della cucina.

 

Le fotografie dei piatti e di copertina sono di Bob Noto

 

 

Indirizzo

Ristorante Sotto L’arco c/o Villa Aretusi

Via Aretusi 5 - 40132 Bologna

Tel. +39 051 6199848

Mail: info@villa-aretusi.it

Il sito web del Ristorante Sotto l'Arco

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