Ristoranti di tendenza

Il Punto D: Damiano Donati a Lucca

di:
Alessandra Meldolesi
|
il punto d damiano donati a lucca 5695

Fra i talenti più puri della jeune vague italiana, Damiano Donati sgancia il tritolo della sua fragilità su convinzioni e convenzioni della gastronomia costituita.

La Storia

La storia di Massimo Donati


Anticonformismo, non senza un pizzico di goliardia. Somiglia ben poco all’elegante country house del Serendepico, scatola total white nel verde della Lucchesia, la nuova casa di Damiano Donati. Che qualcuno definisce una “trattoria contemporanea italiana” dove tutto è possibile, persino mangiare. È ospitata negli spazi in cui un tempo giovani donzelle allietavano giovani fanciulli, come testimonia l’edicola sacra appena sopra l’ingresso, commistione vertiginosa di sacro e di profano. Addossata come una tangente all’ellisse delle mura esterne di piazza dell’anfiteatro: il Punto D in cui culmina una traiettoria purissima, estranea alle coordinate di qualsiasi equazione.


Officina del Gusto, recita il sottotitolo. Perché qui si fabbrica tutto da zero, compresi gli arredi dal fascino post-industriale, assemblati con materiali di recupero come i carrelli da calzaturificio e i piani di lavoro convertiti in tavolo. La prima spia di un bricolage che è gioco ma anche etica, forma di sensibilità che impronta la cucina e rappresenta il concept del locale. Basta la grana della voce di Donati, del resto, per intuire un’attitudine che è immediatamente stile. Sommessa e incline all’understatement, si direbbe fragile da come resta in attesa dell’interlocutore e dell’ingrediente.


Fragilità: ovvero delicatezza, sensibilità e ipersensibilità, intuizione e capacità di immedesimazione. Piatti che si aprono e si chiudono come le ortensie azzurre di Rainer Maria Rilke citate da Eugenio Borgna. C’è tutta una psicologia negli ingredienti assemblati sul piatto da un paio di braccia tatuate: “Mamma estetista, papà autista, sono nato a Lucca 28 anni fa. Fin da piccolo il mio gioco è stato cucinare le ricette dell’Artusi, così dopo le medie, trovandomi a dover scegliere, sono stato tentato dalla meccanica ma ho infine optato per l’istituto alberghiero su suggerimento dei miei genitori. Perché sono sempre stato affascinato dal creare e dal manipolare, sentimento che ho ritrovato collaborando con l’artista Andrea Salvetti”.



“L’alberghiero però non l’ho nemmeno finito. Ho iniziato subito a lavorare, prima da Damiani, all’epoca delle catalane e delle pennette con gli scampi. Poi per due anni al Butterfly, che ha preso anche la stella. Nel frattempo studiavo, perché sentivo che mi mancavano le basi, da solo o frequentando qualche corso. A quei tempi avevo il mito dell’alta ristorazione, tanto che dopo 6 mesi di Villa Maria Luigia sono finito in stage per altri 5 dai fratelli Alajmo. Cosa mi ha affascinato di più? Entrare nei pensieri di un cuoco. La mente di Massimiliano è affascinante e concreta, ricordo che al momento di ideare un piatto ricorreva a esperimenti come mangiare al buio o non mangiare affatto, per procurarsi una fame e voglie potenziate”. Ma è l’etica, forse, il contagio più virale, per quanto a Padova abbia connotazioni religiose. “Osservando un piatto puoi capire facilmente se un cuoco possiede le tecniche per rispettare la materia e l’atto della nutrizione. E Massimiliano le aveva”.


Al Serendepico in 3 anni fioccano gli allori, solo nel 2012 il riconoscimento di chef emergente da parte del Gambero Rosso e la menzione dell’Espresso. “Ma sentivo che non ero pronto per reggere quelle pressioni. A causa di un grave lutto ho realizzato che la vita ha valori più profondi di un lavoro cui sacrifichi le tue giornate e la tua vita famigliare. Che dovevo portare avanti la mia passione in un altro modo, cercando l’origine della materia in campagna. E la mia cucina ha cambiato psicologia. Lo sforzo fisico necessario per dar vita a un semplice ortaggio insegna il rispetto, perché una carota impiega fino a 6 mesi per crescere, quindi occorre pensarci due volte prima di tritarla. Vale lo stesso quando si munge una mucca o si sacrifica un animale. Tutte attività che ho svolto per 8 mesi presso l’azienda biodinamica la Cerreta, di cui gestivo la cucina. Ma prima andavo al pascolo con Djaga, un pastore nomade senegalese che chiamava le mucche per nome. Qualcosa di incredibile”.



“Alla fine però mi sono reso conto che dovevo concretizzare questa esperienza e metterla in atto nella mia città. Così nel maggio 2014 ho aperto il Punto con i miei soci, Iacopo di Bugno, che segue la cantina e il marketing, e Tommaso Martelli, amministratore. Nello scorso mese di gennaio c’è stato tempo anche per un’esperienza allo Chateaubriand, uno dei bistrot più importanti del mondo”. L’etica inizia infatti dalla democraticità dell’offerta, con una carta di piatti in gran parte vegetariani proposti a prezzo fisso (9 euro gli antipasti, 12 i primi, 15 i secondi, 5 i dessert) e un menu degustazione composto di 7 portate a 60 euro, a discrezione del cuoco; anche la carta dei vini privilegia il rapporto qualità/prezzo, con tante piccole cantine e un bell’assortimento di bottiglie attorno ai 20 euro fra le 50 complessive, tutte italiane.

Prosegue quindi nel rispetto dell’ingrediente locale, che siano le verdure di Federico Martinelli, alias Nicobio, dal quale Donati passa due volte a settimana, il gallo livornese di una piccola azienda toscana, le carni di Michelangelo Masoni o il pescato della costa. Fino a farsi concetto culinario, ad esempio nello scarto zero, perché i menu nascono ricostruendo la totalità dell’ingrediente. “Prima avevo in carta una rosticciana affumicata, abbiamo stoccato i suoi sughi misti a grasso e adesso li usiamo per condire la carne cruda o i capelli d’angelo, in omaggio a Massimiliano Alajmo”.


Donati compie un passo indietro dopo l’altro, perché “lo spettacolo dei fiori di ciliegio, a primavera, non potrebbe andar dritto al cuore come avviene se la loro fragilità non fosse così sensibile. In generale una condizione d’estrema bellezza è d’essere quasi assente, o a causa della distanza, o a causa della debolezza”, scriveva Simone Weil. Vedi E verdura sia, secondo vegetariano, anzi vegano, dove gli ortaggi di stagione, in numero variabile da 8 a 10, vengono svolti ciascuno secondo la propria natura, in modo da evitare il tranello della reductio ad coquum. “Quella vegana è una cucina che amo molto, perché costringe il cuoco a lottare con gli automatismi e andare in profondità, scoprendo nuovi ingredienti. Per esempio adesso lavoro molto sui semi”.

I Piatti

Si può cominciare con il blinis di sola farina di ceci, vegetariano e gluten-free, con verdure marinate, caviale di senape e maionese di fichi. Dove i cetrioli soggiornano in sale, aceto di mele e coriandolo; le zucchine in olio, sale, pepe e basilico; mentre la senape è appena cotta, fino alla consistenza delle uova di storione. Nel filone dei trompe-l’oeil vegetariani, la citazione ironica di un’icona del lusso, svolta per di più in chiave mediterranea. “Perché voglio che la mia cucina sia suscitata da ciò che vedo intorno a me”.

La melanzana è cotta intera e sbucciata al momento del servizio; a guarnirla pomodori confit al limite del concentrato e formaggio caprino di Lucca, sul modello di una Norma scomposta o di una parmigiana. Alla base una frittellina tipo falafel composta di lenticchie e miglio, “perché adoro i legumi e in generale sono molto attento agli aspetti nutrizionali e alle responsabilità del cuoco. Tutti i miei menu sono analizzati da una nutrizionista, Francesca Fanucchi, che prepara un foglio da allegare alla carta con i consigli per gli ospiti”.

Notevolissimi gli spaghetti con burro e susine acide, ispirati all’umeboshi giapponese. “Un giorno in casa avevo fame, ho guardato in dispensa e mi sono ricordato del sale di umeboshi che mi era stato regalato. Esaltava le verdure in una maniera stupenda. Così ho pensato di raccogliere le susine gialle a casa mia, snocciolarle, salarle sulla pelle e farle asciugare in forno dolcemente, fino a 2 giorni a 65 °C. Scegliendo quelle acerbe per la sinergia fra acidità e sapidità. Siccome la mia è una cucina basica, a contrasto metto la grassezza di un buon burro della Lunigiana. Lo spaghetto è Benedetto Cavalieri, un formato che amo perché induce a una maggiore concentrazione, per via dello sforzo necessario per mangiare. Lo condisco con burro, poco Parmigiano e sopra una cascata di susina acida frullata”.

“Il riso vegetale di mare nasce da considerazioni nutrizionali: amo il formaggio ma cerco di ridurre o eliminare l’uso di latticini, come in questo caso. Tosto i chicchi con un fondo d’olio e li porto a cottura nel brodo vegetale, poi manteco con olio aromatizzato all’aglio e acqua di cozze pura. Stendo sul piatto e cospargo con polveri di alghe wakame e nori. Il risultato è puro iodio, con la nota agliata per l’aggancio marinaro e l’acidità del succo di limone”.

“Il galletto è disossato e privato del petto. Coscia, sovracoscia e ala restano unite e le cuocio così, con la cresta all’interno, sottovuoto per 22 ore a 72 °C. Al momento del servizio la cresta viene tostata in padella e il gallo finito in forno a 220 °C per 10 minuti, in modo che fuori sia croccante e dentro succulento. Il petto e le rigaglie invece vanno nello spiedino, che preparo con agnello e capriolo. Perché in giro non trovavo mai uno spiedino con un pensiero e ho voluto farmelo da solo. Sono andato a comprare il filo d’acciaio e con Andrea Salvetti abbiamo preparato i supporti, 4 mm per 30 cm. La cottura si svolge prima in padella, poi in forno; la guarnizione si compone di carote in giardiniera e di una salsa che cambia ogni giorno”.

Fra i dessert la tartelletta di farina di castagne con chantilly allo zafferano e frutti di bosco di Sua Maestà la Formica, raccolti a 1500 metri di altitudine. “Un dessert ruffiano come piace a me, godereccio, senza spigoli o concetti particolari”. Oppure la Sacher espressa con confettura di susine, sempre “perché mi piace utilizzare ciò che vedo”, pandispagna monoporzione al microonde, dischi di ganache a mo’ di mantello, susine fresche e acidule. Sotto il segno di una semplicità definitiva, come il resto del menu.

 

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

Indirizzo

Punto Officina del Gusto

Via dell'Anfiteatro 37 - 55100 Lucca

Tel.+39 0583 058490

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+39 0583 058490


Mail: Info@puntoofficinadelgusto.com

Il sito web di Punto Officina del Gusto


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