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Nikita Sergeev: la curva di crescita di un giovane talento

di:
Alessandra Meldolesi
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Fa parlare di sé Nikita Sergeev, giovanissimo cuoco nato in Russia che sta bruciando le tappe a Porto San Giorgio. Studio delle origini, modernità mediterranea e grandi abbinamenti i propellenti della sua crescita accelerata.

La Storia

La storia di Nikita Sergeev


Gli anni sono appena 26, i mesi di attività altrettanti, quelli di studio 12. Chi lo direbbe, sedendo al tavolo dell’Arcade, ristorante luminoso che appende le sue insegne sopra una stradina di passaggio a Porto San Giorgio. Non troppo vicino al mare, per evitare gli schizzi della cucina da spiaggia e il cono d’ombra di chi ci spadella (egregiamente) da una vita, pieds dans l’eau pochi stabilimenti balneari più in là.

Anni portati al fast moving, verrebbe da commentare, visto che i piatti manifestano una maturità inopinata. Dall’apertura nell’aprile 2013 la crescita ha incenerito le tappe mentre Nikita manteneva il suo sorriso imberbe sotto la cresta dei capelli biondi. Un ragazzo come tanti, in jeans e scarpe da ginnastica, l’iphone in tasca e l’accento slavo fra una risata e il ritornello di una canzone. I natali infatti sono a Mosca, in quel 1989 che segnò la caduta del muro di Berlino; i primi contatti con l’Italia vecchi di 13 anni, durante una vacanza con i genitori.


“Mi è sempre piaciuto cucinare. Fin da bambino mi divertivo ad aiutare le donne di casa ma non avrei mai pensato di farne un mestiere. Dei sapori dell’infanzia ricordo gli ingredienti selvatici, che fossero funghi oppure bacche come il mirtillo di palude e l’olivello spinoso, gli affumicati e i salumi cotti; non certo il caviale. In casa non arrivava un granché, tranne i giorni di festa, quando toccava al maialino con il grano saraceno o all’anatra con le mele. Mia nonna era costretta a file interminabili per acquistare qualsiasi cosa. Con la caduta del regime la situazione è ulteriormente peggiorata: di cibo non se ne parlava neanche, ma i benestanti hanno iniziato a viaggiare e a contaminarsi con influenze europee”.


Sarà stato il fascino del proibito, molla del piacere gastronomico fin da Adamo ed Eva; sta di fatto che l’interesse del giovane Nikita cresce frequentando i primi ristoranti con i genitori, per assistere magari allo show di un cameriere che monta la maionese al guéridon. Dopo la laurea in Scienze Politiche conseguita a Mosca per ragioni linguistiche, la doccia fredda del mancato riconoscimento in Italia e il bisogno impellente, per ragioni di visto, di inventarsi un’altra occupazione. Il 2011 è così l’anno di Alma, scuola di cucina diretta da Gualtiero Marchesi dove prende appunti ascoltando Luciano Tona, Silvio Salmoiraghi, Andrea Grignaffini e Paolo Lopriore, prima dello stage al Tramezzo di Parma e dell’esame.


“La cucina italiana mi ha sempre affascinato, non penso sia la più buona del mondo ma è equilibrata e universale, perché il cacio e pepe accontenta tutti, ricchi e poveri. Ho investigato anche le mie radici russe, per esempio la tecnica della fermentazione applicata ai vegetali o al latte, la conservazione degli ortaggi in marinate o in salamoia. Ho voluto provare la cucina di Anatoly Komm, oltre a quella di tanti chef italiani, componendo il mio puzzle un tassello dopo l’altro. Il libro 6 in tutto questo ha rappresentato uno spartiacque, decisivo per la mia formazione”.


L’inaugurazione dell’Arcade si svolge nell’aprile 2013, al termine di 6 mesi di ristrutturazione di un esercizio preesistente.


A guidarla è mamma Ekaterina, estetista che da subito asseconda la passione di Niki e condivide la sua sete di conoscenza, fino a guidare la sala con i suoi sette tavoli dall’allure classicista. Sopraggiunge poi la passione per il vino, con la frequentazione dei corsi AIS e la palestra della degustazione, propedeutica all’assemblaggio di una carta di 400 etichette, zeppa di sorprese. Fra i produttori del cuore Maria Pia Castelli, Stefano Legnani, Fattoria Coroncino, con una predilezione netta per i biodinamici e i macerati, dernière vague della ristorazione, dovuta forse ai vini georgiani assaggiati da piccolo in Russia.



L’evoluzione nell’arco di due anni è incalzante: dall’impronta un po’ scolastica degli esordi verso una semplicità più moderna e sfaccettata, dove il gusto ha la meglio sull’estetica, fuori da ogni pulsione dimostrativa. Una cucina più sicura, lineare e impattante, fortemente riflessiva che si alterna a piatti decorativi o ispirati ai sapori della madrepatria russa, oggetto di acuti repêchage, in modo da creare un piacevole pluristilismo. Abbastanza per vincere il recente concorso Emergente centro, pari merito con Mattia Lattanzio.



I Piatti

e materie prime per i menu (il Degustazione di 6 portate a 55 euro; il Libera ispirazione, con prodotti del giorno, di 8 portate a 60 euro; il Percorso Nikita di 9 portate a 65 euro; più abbinamenti rispettivamente a 15, 20 e 25 euro) sono pesce prevalentemente locale, con eccezioni quali i gamberi rossi e il tonno fatti arrivare dal mercato di Milano, e verdure degli orti della Valdaso, proprio sotto le finestre di Nikita. Il pescato in particolare è abbattuto solo in caso di necessità. Saltuariamente fa capolino anche la selvaggina, altra passione dello chef, sul modello di Mauro Uliassi.



Apre le danze il panino al vapore con hamburger di mazzancolle e maionese di lamponi, divertissement sul junk food che trova il twist vincente nell’acidità leziosa della salsa, con un effetto “barbie” nelle dimensioni, nel colore e nel gusto. Seguono, fra gli appetizer, il brandello di carasau con acqua di polpo gelificata all’agar agar e semi di senape, per valorizzare lo scarto della cottura sottovuoto, in accordo con la voga odierna del recycling, e la tartelletta con burro montato, acciuga del Cantabrico e semi di lino, dove esordisce una testura solleticante e fuggevole destinata a ricorrere nel pasto, per la carezza di amaranto e quinoa. Dentro il cestino del pane, nel frattempo, grissini al curry, sfogliatine dello stesso impasto, pane al lievito madre, focaccia e panini al nero di seppia su un supporto russo.



L’aringa candita, ovvero marinata nel sale bilanciato allo zucchero muscovado, viene ripescata nella memoria russa; dopo avere acquisito una testura gommosa, che avvicina il pesce fresco a quello conservato, è sposata alla classica carota, italianizzata in un carpaccio, cui il mascarpone al lime, evocativo della panna acida, e la spruzzata di Aceto Balsamico conferiscono ulteriori accenti nostrani. Un esempio di cucina contaminata, interlinguistica nello scambio di ingredienti e suggestioni. Diverso il gioco dei gamberi rosa dell’Adriatico con maionese al Cognac, pisellini sgusciati e polvere di pomodoro: una variazione del cocktail di gamberi spazzata da una brezza primaverile, dove la nota alcolica scalda l’opulenza dolce dei crostacei, sgrassandoli con un ricordo di flambé. La girandola delle maionesi, con uova o meno, segna un primo marchesismo sul filo dello stile, destinato a raccogliere altre perle qua e là.


L’ostrica Gillardeau con indivia belga e guanciale è servita cruda, avvolta nell’indivia sbollentata a mo’di fagottino, che ne prolunga il gusto, e accompagnata da un dashi da sorbire nella tazza, come un tè. Il gioco delle temperature è registrato sul corpo umano, attorno ai 36 °C, con l’ostrica più fredda e il liquido caldo. Più il guanciale tostato ma non croccante per la giusta grassezza.




Lo shabu shabu di ricciola con spinacini e senape reintroduce sotto spoglie giapponiste il richiamo originario dell’affumicatura, praticata in casa Sergeev, come in tutti i focolari di Russia, per esempio sulle trote. Si tratta in questo caso di un fumo espresso di trucioli di ciliegio, che va a complessificare la ricciola, pesce dal morso quasi carnale, appena scottato in un leggero infuso di camomilla, con la verdura per la mineralità terrosa e la senape per un richiamo ulteriore alla Russia.


Il riccio è presentato in absentia, ricreando la sensazione dolce e minerale attraverso l’unione di tartare di noce di capasanta, amaranto cotto e croccante, bisque di teste di gamberi montata al sifone, senza panna. Dove i semi, nuovamente solleticanti nel percorrere inafferrabili il palato, ricostruiscono la tattilità granulosa delle lingue. Un illusionismo ma non troppo, che cortocircuita terra e mare.


Si attracca poi con Cavolfiore, lumache e liquirizia, piatto che valorizza la testura gommosa del mollusco come la ricetta precedente, che lo riportava in vigna unendo foglie di vite centrifugate e salsa di grappoli acerbi dalla tannicità spiccata. In questo caso subentrano la crema di cavolfiore con la sua gassosità e la liquirizia, che prolunga la speziatura naturale e il gusto delle lumache, favorendone la masticazione.


Il nuovo corso di Nikita è ben esemplificato dal Riso cremoso al sedano rapa, sentori di mare, limone candito e capperi: dove il Carnaroli viene cotto in acqua, di nuovo secondo l’insegnamento marchesiano, poi mantecato con l’ortaggio, infornato e frullato, per esaltare le note terragne, unito a pochissimo burro. A contrasto, il mare è presente solo per via di polveri che ne fanno evolvere il gusto: ostriche, cozze, lattuga di mare cotte nel microonde fino a disidratazione, poi essiccate in forno, polverizzate e tostate in padella, più la scorza di limone confit al sale, come in Marocco, e i capperi per rafforzare la mediterraneità. Terra e mare, quindi, nella dissociazione delle sensazioni gustative e olfattive, come può accadere nel vino. “Un piatto che sa di bassa marea. Mi ricorda la Bretagna, con quel profumo tagliente di mare ma non di pesce”. Imprevedibile, lineare, pulito come il vento sulla sabbia.


I tortelli di anguilla affumicata con yogurt e spugnole intonano nuovamente le note affumicate e acide della nostalgia russa, con lo yogurt al posto del kefir, i tortelli all’italiana, glassati con una noce di burro e le spugnole, la cicoria bruciacchiata per l’amaro. Un incontro fra lattico e ittico che enuclea sinergie moderne in una tradizione lontana. Di marchesiano resta lo schema 3-5-7, abaco che enumera i tortelli sul piatto.


Fra i secondi la ventresca di tonno, insalata cotta e tè matcha, nata dopo avere assaggiato il calamaro di Romito, con il cuore dell’insalata sbollentato. Dove la verdura rosolata nella padella della ventresca viene condita per contrasto col centrifugato delle sue foglie crude; il tè verde rafforza le note erbacee mentre sgrassa l’opulenza del pesce per via di tannino.



Il gioco di freschezze fa roteare sul palato piccole biglie di succhi di frutta gelificati all’agar-agar, unite a frizzy pazzy: un divertissement ludico e scoppiettante, che prende in contropiede le aspettative di una comune macedonia. A seguire il Soffritto all’italiana, sineddoche contraddittoria, visto che trasforma una parte nel tutto del piatto, trasponendola oltretutto in pasticceria. Il pasto viene quindi chiuso da quello che sarebbe il tradizionale principio della cucina italiana, esaltandone il valore di frammento, che custodisce la spinta formidabile al proprio completamento, quindi al coinvolgimento del destinatario. Sul piatto crema di carota cruda e completa di buccia, sorbetto di sedano, un anello di cipolla in agrodolce, altro classico italiano, e terra di cacao alla maltodestrina, simile a ragù. “Perché la cucina è anche provocazione. Un giorno entrando in cucina ho sentito il profumo del sedano e ho pensato al soffritto, che non faccio mai. Si trattava in realtà del sorbetto, predessert un po’ scontato. Ho iniziato a lavorare su quell’intuizione estemporanea ed ecco il risultato”.

 

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

 

Indirizzo

Ristorante L’Arcade

Via Giordano Bruno 76 - 63822 Porto San Giorgio (FM)

Tel.+39 0734 675961

+
+39 0734 675961

br />Mail: info@ristorantelarcade.it

Il sito web del ristorante L'Arcade


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