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Igles Corelli e il nuovo Atman: tutto il tempo che occorre per essere giovani

di:
Alessandra Meldolesi
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Ha compiuto un anno il nuovo Atman di Igles Corelli: dentro una villa del tardo Seicento, a Lamporecchio, il leone della cucina italiana, giovane à rebours, aziona nuove leve di una sala all’italiana. E la cucina ricomincia a 60 anni.

La Storia

La Storia del Ristorante Atman


Il sorriso non è cambiato, sotto la cascata dei riccioli brizzolati. Lo stesso delle foto color seppia scattate ad Argenta negli anni ’80. In fila il patron Giacinto Rossetti, formale in smoking, i soldati di cucina Bruno Barbieri e Marcello Leoni nelle loro divise immacolate, fuori campo Mauro Gualandi, Italo Bassi, un plotone di cameriere e di sfogline agli ordini del comandante Igles Corelli. Da poco più di un anno si aggira per le sale auguste di Villa Rospigliosi, a Lamporecchio: mozzafiato nella mobile armonia di volumi schizzati addirittura da Gian Lorenzo Bernini e tradotti in pietra serena dal suo allievo Mattia de’ Rossi per il cardinal Giulio Rospigliosi, assurto al soglio pontificio col nome di Clemente IX.

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fotografia di Massimo Camplone



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Al termine del viale bordato di lecci, di fronte alla cappella, la scala immette in un salone ovale affrescato in trompe-l’oeil da Ludovico Gimignani. Sopra sei camere, con vista sul parco selvaggio, e diversi spazi eventi, con una seconda cucina in allestimento. Ma il ristorante è rimasto nel ventre della Villa, dove avevano sede le cucine pontificie con i loro ciclopici camini. È stato rimaneggiato creativamente dall’architetto, che impossibilitato a toccare muri vincolatissimi ha finito per riesumare la teatralità del maestro barocco con le sue strutture mobili, il gioco di pannelli, superfici e prospettive. Qua e là inserti verdi che squillano come una scenografia del giardino esterno, la cucina per le finiture ben illuminata e a vista nella penombra generale, l’esposizioni di quadri realisti del dopoguerra al chiodo ma anche in posizione orizzontale. Per un sentimento di meraviglia.

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La consacrazione, per quello che è ormai considerato un papa scanzonato della cucina italiana, figlio di un trattore e nipote di un fiocinino antifascista, convertito alla cucina durante il militare in marina e poi sulle navi da crociera, la cui fama è indissolubilmente legata al Trigabolo, ristorante in odore di terza stella Michelin dove è arrivato autodidatta e si è fermato per 16 anni in veste di chef.

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“Era il 1981 quando uno dei soci di Giacinto, Gigino, di professione torrefattore, chiese a mio padre, suo cliente, se conosceva qualche cuoco. E così, per puro caso, sono finito ad Argenta, dove ho scelto uno a uno i miei collaboratori, tutti ragazzini oggi famosi. A Giacinto devo tantissimo: è stato lui a farmi conoscere i prodotti del territorio, comprati anche a rischio di rimetterci, e l’alta ristorazione. Ci portava tutti insieme da Cantarelli, Paolo Vai, al San Domenico. La miccia di una bomba che abbiamo fatto deflagrare insieme, anche grazie a Saperi e Sapori, congresso di cucina ante litteram che ci ha messo al passo con le tendenze mondiali e le ultime tecnologie. Sul palco Senderens, Winkler, Robuchon, Adrià… Il piatto della svolta è stato il budino di cipolla con salsa di foie gras e porro fritto presentato nel 1986 a un concorso, che vinsi. Ricordo un maître che mi fermò chiedendomi dove volessi andare, con quella cosina da niente. Perché cercavo la materia, non i fronzoli. E invece…”

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“Il primo ristorante della mia vita tuttavia è questo, perché ho sempre avuto mezze cose, dal Trigabolo, che era una pizzeria, alla Locanda della Tamerice di Ostellato, che riposava interamente sulle mie spalle, al primo Atman di Pescia, un locale raccolto. Non ho mai avuto brigate così formate e numerose, in sala e in cucina, che mi consentissero di esprimermi appieno; con l’eccezione del mio secondo Marco Cahssai, che è con me da 11 anni”. Ma nuove sono anche le possibilità offerte dall’orto di quasi due ettari, prossimo all’ampliamento fino a 8, dove ai frutti dimenticati verranno affiancati animali da cortile di razze altrettanto inattuali. “Nelle celle però resteranno le patate di Avezzano e i pomodorini del Vesuvio; dal Delta del Po gli acquatici, le anguille e le zucche; la mora romagnola e i selvatici dell’Appennino”.

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Personaggio mediatico in anticipo sulla gastromania, Corelli è stato fra gli chef che meglio negli anni hanno concettualizzato la propria cucina, grazie anche alla moglie Pia, autrice dei suoi libri. Ecco quindi le calzanti definizioni di “cucina garibaldina”, che allude a una patria rifatta a tavola attraverso i suoi prodotti migliori, contro la voga del chilometro zero, e di “cucina circolare”, cioè a scarto zero. Dove il circuito è anche stilistico, fra nostalgia, tradizioni e avanguardia, in un mix inedito di padelle e serpentine, ampolle, fumi e precordi struggenti.

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L’esito è puro tech-comfort, con una definizione generosa ed esatta del gusto che esalta scientificamente il prodotto. “Ultrasuoni, circolatore termostatato, turbomix, Rotaval, Gastrovac, estrattore, azoto: le tecnologie le ho tutte. E nel nuovo Atman porteremo avanti la collaborazione con il professor Mori. Attualmente stiamo lavorando su addensanti e gelificanti naturali, per ottenere testure leggere, sugli infusi e la liofilizzazione, anche sulla camera iperbarica per aprire molluschi e crostacei a crudo salvaguardando l’integrità della polpa”.

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I Piatti

I menu degustazione sono 4, tutti composti di 4 portate, predessert e dessert a scelta, con dedica al bosco, al mare, ai viaggi o misto, rispettivamente a 110, 120 e due volte 100 euro. Li accompagnano gli abbinamenti di Samuele Del Carlo, che attinge a una carta di 1200 referenze, in parte provenienti da Pescia, con ricarichi cordiali, talvolta inferiori all’enoteca. “La scelta ha seguito l’assaggio e il riassaggio. Con l’idea che il vino non debba costituire la fonte di guadagno del ristorante, ma rappresenti un servizio, senza diritto di tappo. L’Italia è il paese più rappresentato, quasi in ogni sua regione e denominazione, con le zone storiche e gli autoctoni in evidenza; subito seguita dalla Francia e dalla Germania”. Spopola l’abbinamento al calice, anche estemporaneo e ritagliato su preferenze e idiosincrasie personali.

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“Per esempio il ceviche di crostacei, con la sua sensazione di mare, la dolcezza, l’acidità non prevaricante e la nota verde della mela. L’assaggio è come l’amore, implica i corpi, quindi ho visualizzato immediatamente un Sancerre Les Monts Damnés di Pascal Cotat, di qualsiasi annata: un abbinamento da Oscar. Oppure il capriolo, che è molto fresco, crudo in tutti i sensi, con l’aceto delle verdure e l’affumicato. Ho pensato a un rosso, per richiamare il sangue e il selvatico, ma senza eccessi di alcol e tannino, quindi un Rossese di Dolceacqua, leggero e serio, sapido e speziato, oppure un Piedirosso dei Campi Flegrei, rustico e mediterraneo, soprattutto affumicato, magari un Agnanum 2013 per la sua leggera acetica”. In sala con lui il maître Francesco Perali e Alberto Ponziani.

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Gli appetizer non sono nelle corde di Corelli (“le piccole cose creano confusione sensoriale”), che preferisce esordire classicamente con una liquidità calda: la crema di cinque varietà di fagioli (verde, borlotto, Sorana, rosso di Lucca, schiaccione) sposata ai cannolicchi crudi. Pesce e legumi, come italianità comanda. Per il tocco contemporaneo l’umami profondissimo del plancton e soprattutto tanta tecnologia, nascosta o apparente, perché i fagioli sono cotti col Gastrovac nell’olio aromatizzato, per un effetto fiasco, i molluschi sono aperti nella camera iperbarica, l’azoto unito all’ultimo momento preserva la differenza di temperature. Nel ricco cestino del pane taralli, ciabattina, chapati, focaccia, baguette al lievito naturale, pane alle noci.

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All’entratina segue la tartare di capriolo Zivieri con paprica affumicata, un piatto degli anni ’80 rivisto tecnicamente con le verdure (ravanello, cetriolo, cavolfiore) in osmosi dentro una soluzione di zucchero e aceto e l’aromatizzazione finale con fumo di foglie di olivo all’Aladin. Per un esito nordico nel binomio acido-affumicato.

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Ottimo, come sempre, il risotto. La tecnica Corelli prevede la tostatura a secco, la sfumatura con vino dealcolizzato per una minore acidità, l’uso di brodo “circolare” preparato con elementi affini alla guarnizione, l’aggiunta di cipolla soffritta a parte e una generosa mantecatura finale con burro freddissimo aromatizzato agli scarti. In questo caso il Carnaroli Acquerello è servito su una purea di aglio orsino, con verdurine varie, una grattata di lime e una quenelle di gelato all’extravergine, che scaldandosi in bocca sprigiona i suoi aromi amplificando l’effetto “insalata di riso”. “Ma il contrasto termico serve anche per scongiurare la monotonia di porzioni relativamente abbondanti, come un’allerta al cervello”.

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Nostalgici i tortelli di zucca, preparati alla ferrarese con un lontano souvenir di Mantova: il ripieno, contenente poco amaretto e Parmigiano Gennari, è di zucca violina del Parco del Delta del Po, tenuta al sole per un mese dopo la raccolta al fine di concentrare gli zuccheri; il condimento spazia, con la buccia di arancia candita, il sesamo per la sapidità e di nuovo il grande Parmigiano 36 mesi da vacche rosse.

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Per secondo la zuppa di pesce, sulla falsariga di un brodetto, ma preparata al Gastrovac con teste e pomodori, i frutti di mare aperti in camera iperbarica e saltati all’ultimo momento, qualche percebe per la punta iodata.

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Oppure il germano ripieno di anguilla, affumicata e marinata, avvolto nella rete di maiale, che compone un’epitome delle paludi. Il piatto risale al 2000, ma la salsa è cambiata: oggi è un fondo di carcasse con uva fragola ed erbe, che finisce per attivare l’antico file del volatile farcito di un animale minore, sul trait-d’union dell’ittico dovuto alla pastura.

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Al predessert di gelato di pinoli di San Rossese al Pacojet su crumble di cioccolato e frutti rossi azotati per il croccante seguono i cannoli acido-amari di cialda al caramello ripieni di mousse di cioccolato bianco con sciroppo di frutti rossi e bacche fresche di Goji.

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Poi una piccola pasticceria originale: anche qui nessuna concessione al piccolo è lezioso, piuttosto la gelatina tenace di frutta, la fialetta di sciroppo e lo zucchero filato con Peta-zeta su un letto di muschio che libera la sua fragranza in sala.

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

 

Indirizzo

Ristorante Atman a Villa Rospigliosi

Via Borghetto 1 - Loc. Spicchio - 51035 Lamporecchio (PT)

Tel. +39 0573 803432

Mail: info@ristoranteatman.it

Il sito web del ristorante

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